La giustizia civile in Italia: perché così inefficiente?

Magda Bianco e Giuliana Palumbo[*]
1. Quanto siamo inefficienti
– L’inefficienza della giustizia civile in Italia non necessita per molti versi di essere ulteriormente dimostrata: le inaugurazioni degli ultimi anni giudiziari (compresa quella del gennaio 2009) vi si sono ampiamente soffermate[1]. Analogamente è noto che le principali criticità risiedono nella eccessiva durata dei procedimenti. Sulla base dei dati forniti dal Ministero della Giustizia, la durata media stimata dei procedimenti di cognizione in primo grado nei tribunali italiani nel 2007 era pari a 968 giorni nella cognizione ordinaria e a 763 giorni in materia di lavoro, previdenza e assistenza obbligatorie. Ulteriori 1.511 e 922 giorni erano necessari in media per la conclusione del rispettivo giudizio di appello. Le informazioni disponibili convergono inoltre nell’indicare una durata delle procedure (assai) superiore a quella degli altri maggiori paesi (e non solo). I dati contenuti nel recente rapporto della Commissione Europea per l’Efficienza della Giustizia (Cepej, 2008) offrono una stima della durata dei procedimenti “litigious” in primo grado nel 2006 pari a 507 giorni, contro i 262 giorni della Francia, 261 della Spagna, 206 della Svezia. Le indicazioni fornite nel citatissimo rapporto della Banca Mondiale su DoingBusiness offrono un quadro ancora peggiore, sia pure riferito a un caso specifico: nel 2008 il tempo necessario per la definizione di una procedura di recupero di un credito commerciale in Italia era di 1.210 giorni, contro i 463 della media dei paesi dell’OCSE.
Profonde sono anche le differenze nella lunghezza dei procedimenti tra le diverse aree del paese, con durate significativamente superiori nelle regioni meridionali rispetto a quelle del Centro Nord. Nel 2006, nei distretti del Mezzogiorno i procedimenti duravano mediamente 1.209 giorni per la cognizione ordinaria e 1.031 giorni per le cause in materia di lavoro; al Centro Nord i valori si attestavano rispettivamente a 842 e 521 giorni. L’esistenza di divari territoriali nell’efficienza della giustizia civile viene confermata dall’analisi della durata dei procedimenti di esecuzione e di quelli speciali[2].
Va tuttavia rilevato che queste statistiche sono costruite sulla base di “approssimazioni”: il Ministero della Giustizia e il Cepej utilizzano una formula “di magazzino” basata sul tempo medio di giacenza della causa nel sistema e che fornisce una valida approssimazione della durata effettiva solo a condizione che il numero dei procedimenti pendenti sia relativamente stabile; le stime della Banca Mondiale sono riferite a casi specifici, sulla cui ipotesi di soluzione per il caso italiano pure si possono avanzare dubbi. Più in generale il confronto internazionale è reso difficile dalle notevoli diversità che ancora caratterizzano i sistemi giudiziari. Infine lo stesso dato “medio” per il nostro paese potrebbe derivare da combinazioni diverse di processi con valore e caratteristiche assai differenziate. Sotto tutti questi profili risulta già evidente un primo problema nell’analisi del funzionamento della giustizia civile italiana: quello dell’insufficiente informazione disponibile anche solo per valutarne adeguatamente la performance. Torneremo oltre su questo punto.
Va infine ricordato che una buona giustizia non è solo una giustizia celere, ma anche una giustizia capace di produrre decisioni di elevata qualità. E’ tuttavia estremamente difficile – anche concettualmente – individuare indicatori di “qualità” delle decisioni.

* Madga Bianco e Giuliana Palumbo – Banca d’Italia, Servizio Studi di struttura economica e finanziaria, Divisione Economia e diritto. Le opinioni espresse non coinvolgono in alcun modo l’Istituto di appartenenza.

2. Dove ricercare le cause? – La durata dei procedimenti può essere vista schematicamente come risultante della interazione tra la domanda di giustizia (intesa come insieme delle controversie per la cui risoluzione ci si rivolge al sistema giudiziario) e l’offerta (intesa come capacità del sistema di produrre decisioni che definiscono le controversie). Pertanto, semplificando in modo estremo l’approccio, l’eccessiva durata dei procedimenti può derivare o da un “eccesso di domanda” di giustizia ovvero da una “insufficienza” dell’offerta. Più precisamente, da un lato, è possibile che la domanda di giustizia che arriva ai tribunali sia troppo elevata rispetto a quanto sarebbe astrattamente “ottimale”. Poiché essa deve essere interamente soddisfatta, si può produrre – in assenza di risorse che si adattano continuamente a tali esigenze – un “intasamento” degli uffici giudiziari. Si tratta quindi di valutare l’ammontare della domanda ed eventualmente individuarne le determinanti. Dall’altro è possibile che le risorse allocate (finanziarie, umane) siano inadeguate, organizzate in modo inefficiente (in termini di dimensione dei singoli uffici, di specializzazione, di utilizzo delle tecnologie, di “struttura del rito” utilizzato) o – nel caso di quelle umane – non ricevano incentivi corretti rispetto agli obiettivi di durata e qualità delle procedure. E’ evidente che tutti questi fattori possono coesistere e interagire reciprocamente[3].

3. Siamo troppo “litigiosi”? – E’ assai complesso stabilire quale sia la domanda di giustizia “fisiologica” di un sistema. Sotto il profilo quantitativo è possibile confrontare il numero di procedure avviate in media in un anno in paesi simili per grado di sviluppo (rapportandolo ad esempio alla popolazione): è quanto viene fatto nel rapporto Cepej (2008), che mostra come – nel confronto con 45 paesi membri del Consiglio d’Europa – solo Russia e Olanda presentino un indicatore di “domanda” superiore a quello italiano: in Italia vi sarebbero infatti (nel 2006) 4.809 nuovi casi ogni 100.000 abitanti, contro i 2.673 della Spagna, i 2.672 della Francia, i 1.342 della Germania.
Una domanda così elevata può dipendere da molteplici fattori; tra questi, oltre ai costi di accesso alla giustizia che presentano notevoli difficoltà di misurazione e di confronto internazionale, rilevano la qualità della legislazione sostanziale e processuale, l’uniformità degli orientamenti giurisprudenziali, gli incentivi delle parti e dei professionisti.
Con riguardo ai primi due aspetti, è noto che la capacità di risolvere amichevolmente le liti si riduce all’aumentare dell’incertezza delle parti in merito alla decisione che prevarrà in giudizio. Una eccessiva quantità e/o cattiva qualità delle leggi prodotte e una troppo elevata variabilità nella interpretazione delle leggi, in quanto fattori che generano incertezza, accrescono la probabilità del ricorso in tribunale. Le informazioni disponibili segnalano per l’Italia problemi legati ad una produzione eccessiva di leggi; a mutamenti troppo frequenti delle regole e alla disorganicità e farraginosità degli interventi. Alla fine del 2007 lo stock di leggi vigenti ammontava a 21.691 in Italia, 9.728 in Francia (fine 2006) e 4.547 in Germania; negli ultimi 10 anni la produzione legislativa in Italia è stata quasi il doppio di quella della Francia e circa tre volte quella della Spagna. Una indagine condotta su 10 testi unici legislativi approvati in Italia nel periodo 1990-2005 mostra come in media in ciascun anno più del 10 per cento degli articoli dei testi di legge sia stato modificato (abrogazione, modifica e aggiunta)‏. Indicazioni circa il grado di uniformità nella interpretazione del diritto possono ricavarsi dall’analisi del numero dei ricorsi e degli esiti dei procedimenti dinnanzi alla Corte di Cassazione. Il confronto tra Italia, Francia e Germania segnala che, a fronte di una stessa percentuale di decisioni di accoglimento delle ragioni del ricorrente, il grado di oscillazione della giurisprudenza nel nostro paese risulta maggiore a causa del numero più elevato di ricorsi che ogni anno la Corte è tenuta ad esaminare, anche in conseguenza della mancanza di un sistema di filtro all’accesso (nel 2007 i ricorsi sopravvenuti dinnanzi alla Corte di cassazione sono stati 32.278 in Italia, 18.232 in Francia e 3.404 in Germania).
Per quanto riguarda il comportamento dei professionisti, i fattori maggiormente rilevanti sono le caratteristiche del mercato (e in particolare il numero di professionisti) e la struttura dei compensi. Sotto il primo profilo, la letteratura economica segnala come in mercati caratterizzati da asimmetrie informative (come quello dei servizi legali) i benefici della concorrenza possono essere limitati dai tentativi dei professionisti di salvaguardare i propri redditi stimolando una domanda per i propri servizi in eccesso rispetto agli interessi dei clienti. Gli incentivi a indurre la domanda sono più forti quando la struttura dei compensi non dipende dal risultato della prestazione, ma è determinata sulla base del carico di lavoro svolto. Per l’Italia vi sono evidenze che questi fattori possano aver svolto un ruolo significativo. Il numero degli avvocati è notevolmente più elevato che negli altri principali paesi: nel 2006, essi erano 290 per 100.000 abitanti, un numero inferiore solo a quello della Grecia (in Francia erano 76, in Germania 168). Analisi econometriche condotte su dati provinciali per il periodo 2000-05 suggeriscono l’esistenza di un nesso causale positivo tra elevato numero di avvocati (in rapporto alla popolazione) e litigiosità. La modalità di determinazione dell’onorario degli avvocati nel nostro paese, basata sul numero di atti redatti e udienze svolte, contribuisce a rafforzare tali incentivi e, più in generale, favorisce comportamenti dilatori degli avvocati nei processi[4].

4. .. o l’offerta è inadeguata? – Anche questo aspetto risulta difficile da valutare correttamente. In primo luogo, la disponibilità di risorse per la giustizia può essere misurata sia con riferimento ad indicatori di “domanda potenziale” (ad esempio la popolazione), immaginando che l’offerta debba adeguarsi a una domanda “fisiologica”, sia rispetto alla domanda effettiva (presente e passata e rappresentata dai carichi pendenti e dai nuovi casi pervenuti nell’anno). Nel caso italiano il giudizio è molto diverso nei due casi. Se facciamo riferimento a indicatori di domanda fisiologica (che potrebbe essere più corretto se riteniamo che la domanda abbia in parte natura endogena, sia cioè determinata anche dalle caratteristiche del sistema e in particolare da quelle dell’offerta di giustizia), il confronto internazionale – che tuttavia in questo caso pone rilevantissimi problemi metodologici, date le differenze nei sistemi giudiziari dei diversi paesi – non evidenzia differenze profonde nella disponibilità di risorse tra l’Italia e i principali paesi europei. Il bilancio per le spese di giustizia (escludendo il patrocinio a spese dello stato e le somme destinate alla attività requirente) è pari a 45 euro per abitante in Italia, contro i 38 in Francia, i 50 in Svezia, i 37 in Norvegia. Il numero di giudici professionali per 100.00 abitanti è pari a 11 in Italia, contro gli 11,9 in Francia, i 10,1 in Spagna i 13,9 in Svezia. E’ molto superiore il dato riferito alla Germania (24,5), che include tuttavia i giudici a tempo parziale. Anche il dato riferito al personale non giudicante (amministrativi) per giudice appare sostanzialmente in linea (4,2 in Italia, contro 2,0 in Francia, 2,9 in Germania, 2,6 in Svezia, ma 9,1 in Spagna).
In secondo luogo, la valutazione della disponibilità di risorse dovrebbe tenere conto oltre che del livello della spesa anche della sua composizione. Sebbene il bilancio previsionale del Ministero della Giustizia sia cresciuto da 6.244 milioni di euro nel 2003 a 7.561 nel 2009, le variazioni non sono state uniformi nelle diverse voci. Particolarmente penalizzati sono stati i “consumi intermedi” che comprendono voci di spesa (acqua, luce, cancelleria, benzina, autovetture…) i cui effetti per la funzionalità del sistema sono rilevanti[5].
E’ tuttavia sotto il fronte dell’organizzazione e l’impiego di tali risorse che si evidenziano le maggiori carenze, anche se queste risultano più difficili da quantificare. Alcuni fattori in particolare assumono particolare rilevanza: proviamo a discutere i principali.

La geografia giudiziaria – L’attuale struttura territoriale dei tribunali civili è caratterizzata da un numero eccessivo di uffici giudiziari di dimensioni troppo limitate. Diverse analisi quantitative (realizzate da Daniela Marchesi) lo hanno mostrato; l’esistenza del problema è stata nuovamente sottolineata dal Primo Presidente della Cassazione in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Nell’analisi riferita al 2006 circa il 70% dei tribunali risulta troppo piccolo per essere efficiente. Appare quindi generalmente condiviso che sia opportuna una revisione della geografia giudiziaria volta ad accorpare gli uffici di minori dimensioni per realizzare economie di scala e di specializzazione attualmente non sfruttate. E tuttavia tali riforme (in più occasioni proposte) incontrano a tutt’oggi significative resistenze.

Gli incentivi dei soggetti coinvolti nella fornitura del servizio – Una giustizia che funziona richiede incentivi adeguati per tutti i soggetti coinvolti nella fornitura del servizio, e in particolare per i magistrati. Questo presuppone un sistema di avanzamenti di carriera che sia premiante rispetto a tutte le dimensioni rilevanti per l’organizzazione – imparzialità e accuratezza delle decisioni, ragionevole durata dei procedimenti, qualità del servizio reso ai cittadini – e in grado di risolvere in modo ottimale i trade-off che emergono tra di esse. A tal fine, particolare rilevanza assumono la scelta dei meccanismi che governano gli incrementi salariali e l’accesso alle diverse posizioni che compongono la magistratura, la scelta del soggetto valutatore, l’individuazione di indicatori di prestazione adeguati.
Il sistema di progressione di carriera a “ruoli aperti” introdotto negli anni ’60 e ’70 e (parzialmente) riformato solo di recente ha evidenziato criticità rispetto a questi aspetti. Sottraendo il meccanismo di avanzamento nella carriera (e quindi nella remunerazione) ad una valutazione comparativa dei candidati, il sistema a ruoli aperti ha ridimensionato il peso delle valutazioni di professionalità. Anche in conseguenza di ciò, le valutazioni sono divenute sempre meno idonee a fornire informazioni adeguate sulla professionalità e sulla operosità dei magistrati. Nei fatti la progressione di carriera è divenuta quasi del tutto automatica e scandita esclusivamente dall’anzianità. L’assenza di criteri obiettivi e predeterminati per la assegnazione dei magistrati alle diverse posizioni – anche per effetto di una concezione della magistratura orizzontale e priva di gerarchica – ha limitato il ruolo che le prospettive di avanzamento potevano svolgere nell’incentivare comportamenti efficienti.
Nel complesso il sistema si è caratterizzato per la debolezza del legame tra incrementi salariali e avanzamenti nelle posizioni e performance. L’analisi economica[6] suggerisce che questi fattori possono spiegare alcune prassi che sembrano contraddistinguere i giudici italiani (anche nel confronto con i colleghi di altri paesi): l’ampia varianza dei comportamenti con riguardo sia alle modalità di organizzazione del lavoro sia all’impegno profuso; l’elevata variabilità degli orientamenti giurisprudenziali; la propensione, in alcuni casi, alla redazione di sentenze eccessivamente elaborate; l’attenzione – a volte insufficiente – dedicata alla gestione della fase istruttoria e al governo del ruolo.
La definizione di un sistema corretto di incentivi non può tuttavia produrre effetti positivi se non accompagnata dalla disponibilità di informazioni. La produzione di statistiche sui flussi in entrata e in uscita e sullo stato di avanzamento delle singole cause è uno strumento indispensabile per permettere al giudice di gestire il proprio ruolo e di programmare e organizzare le udienze in un ottica più attenta ai risultati e ai tempi; per seguire lo svolgimento delle singole cause e impedire ingiustificati ritardi. A livello di sistema, la disponibilità di informazioni è precondizione per la pianificazione e la programmazione del lavoro all’interno degli uffici e per la successiva verifica dei risultati; per una disciplina più efficace del comportamento di ciascuno verso obiettivi condivisi; per la costruzione di indicatori di performance sufficientemente sofisticati da tenere conto della forte articolazione dell’attività giurisdizionale e quindi capaci di esprimere un giudizio ponderato sull’operato del singolo magistrato. Un sistema informativo che assicuri maggiore trasparenza delle decisioni del singolo giudice e o della sezione contribuisce alla armonizzazione e, nei casi delle fattispecie più ricorrenti, alla standardizzazione degli orientamenti.

La dirigenza – Le esperienze positive di alcuni Tribunali hanno dimostrato che una direzione efficiente degli uffici può determinare importanti guadagni di efficienza anche a parità di risorse e a legislazione costante. La funzione dirigenziale è stata di recente oggetto di interventi di riforma che hanno, da una parte, ridefinito funzioni e responsabilità dei magistrati capi e dei dirigenti amministrativi, dall’altra, introdotto la temporaneità degli incarichi semi-direttivi e direttivi (di durata quadriennale rinnovabile una sola volta) e rinnovato i criteri di conferimento, non più limitati all’anzianità ma anche all’accertata sussistenza di adeguate capacità organizzative e gestionali. Sebbene il carattere recente delle riforme non consenta ancora una valutazione, gli interventi si muovono nella giusta direzione di un rafforzamento della funzione dirigenziale che in passato è risultata debole e sfornita di efficaci strumenti e leve di governo.

Gli assetti organizzativi – Sono state ampiamente sottolineate (in particolare nei lavori di Stefano Zan) le inefficienze nella allocazione e gestione delle risorse umane e finanziare, nella organizzazione del lavoro e dei processi produttivi all’interno degli uffici giudiziari. Tali inefficienze possono sinteticamente essere ricondotte alla incapacità degli uffici giudiziari di essere “organizzazioni”. Non vi è coordinamento funzionale e gerarchico dei magistrati, la cui autonomia non si limita al merito delle decisioni ma si estende anche alla organizzazione del lavoro e alla gestione del rapporto con gli utenti; il coordinamento tra personale togato e amministrativo è reso difficile dalla struttura duale del nostro sistema: i giudici fanno capo al Consiglio Superiore della Magistratura mentre il personale ausiliario e le risorse materiali dipendono dal Ministero della Giustizia; l’allocazione e gestione delle risorse finanziarie è fortemente centralizzata al punto da non consentire una ricostruzione di quanto effettivamente speso da ciascun ufficio.

L’informatizzazione -Il recente rapporto Cepej evidenzia un trend europeo di maggiore uso di indicatori di performance in parte associato alla crescente informatizzazione, rispetto al quale l’Italia è collocata nella fascia bassa. Il grado ancora contenuto di informatizzazione degli uffici giudiziari ha effetti sull’efficienza nel suo complesso (sia direttamente, sia indirettamente perché limita la possibilità di misurare correttamente qualità e performance). Dove il processo civile telematico (PCT) viene impiegato in misura significativa (ad esempio presso il tribunale di Milano per i decreti ingiuntivi) esso ha consentito un rilevante abbattimento dei tempi.

Il rito – Non trattiamo qui le questioni del rito (un aspetto rilevantissimo nel “processo produttivo”), su cui si è intervenuti ampiamente – soprattutto con riferimento al primo grado – sia perchè oggetto di molte analisi, sia perché la gran parte degli interventi, anche quando nella direzione corretta, non sembrano essere stati risolutivi, proprio perché non sono stati affrontati nello stesso tempo gli altri nodi (domanda e offerta di giustizia).

5. Qualche conclusione – Una giustizia civile inefficiente non produce solo effetti negativi sul piano dell’equità, ma anche sul piano economico: dove la giustizia è più “lenta” e più “incerta”, il maggiore rischio può ridurre gli investimenti, limitare la disponibilità di finanziamenti per le imprese.
Sul piano empirico, l’impatto negativo di sistemi giudiziari inefficienti su una serie di variabili economiche rilevanti è stata stimata in vari studi basati su confronti internazionali e interni ai paesi.
In un famoso articolo del 1999, Hall e Jones[7] stimavano che una quota significativa delle differenza nella produttività di 175 paesi fosse spiegata dalla variabile “infrastrutture sociali” di cui una delle componenti è rappresentata da un indicatore di “tutela dall’espropriazione”[8]: un aumento di tale indicatore dal suo valore peggiore (quello dello Zaire) al migliore (quello della Svizzera) consentirebbe una crescita della produttività di 25 volte.
Nel caso italiano, il confronto tra province con diversa qualità dell’enforcement ha mostrato come esso abbia effetti su: a) il mercato del credito: a parità di altre condizioni, un maggior cumulo di processi pendenti (che approssima la durata futura dei processi) riduce la disponibilità di credito per le imprese; nei distretti di corte d’appello in cui maggiori sono i processi pendenti, le famiglie sono maggiormente razionate sul mercato del credito e l’ammontare del loro indebitamento è minore; b) lo sviluppo finanziario: l’inefficienza della giustizia influenza positivamente la quota di ricchezza che le famiglie detengono sotto forma di denaro (contante; depositi) rispetto a quella detenuta in strumenti finanziari più “sofisticati”; c) il credito commerciale: una minore capacità di smaltimento del carico di lavoro degli uffici giudiziari influenza positivamente il ricorso delle imprese al debito commerciale (dilazioni di pagamento), che beneficia di un maggior grado di autotutela rispetto a quello bancario; d) la natalità delle imprese: un incremento dei livelli di efficienza tale da annullare le differenze tra la provincia con l’apparato giudiziario meno efficiente e la provincia con quello più efficiente si tradurrebbe in un incremento dei tassi di entrata di circa tre quarti di punto percentuale (il tasso di entrata medio delle società di capitali è di poco superiore al tre per cento); e) la dimensione delle imprese: una differenza di efficienza pari a quella tra la provincia con l’amministrazione della giustizia più inefficiente e quella più efficiente (in termini di durata delle procedure di cognizione ordinaria) si traduce – a parità di altri fattori, considerati nei valori medi – in un differenziale di fatturato mediano pari al 5 per cento del valore medio e all’8 per cento di quello mediano. E’ evidente che affrontare i nodi della giustizia civile italiana produrrebbe benefici significativi per l’economia nel suo complesso.
La disponibilità di informazioni è cruciale a questo fine. Statistiche articolate e tempestive costituiscono un supporto indispensabile per l’attività di ricerca e per la pianificazione, realizzazione e successiva valutazione di interventi di riforma coerenti e parte di un progetto complessivo.

Note

1.  Anche se meno analizzate – soprattutto con riferimento ai possibili effetti sull’economia – sono ampiamente riconosciute anche le difficoltà della giustizia amministrativa (si veda l’inaugurazione dell’anno giudiziario della giustizia amministrativa del febbraio 2009) e di quella penale.

2.  Per un’analisi di questi aspetti si vedano A. Carmignani, S. Giacomelli (2009), La giustizia civile in Italia: i divari territoriali, Questioni di economia e finanza n. 40, Banca d’Italia e i lavori di D. Marchesi.

3.  Un’analisi dell’interazione tra i diversi fattori è contenuta in M. Bianco, S. Giacomelli, C. Giorgiantonio, G. Palumbo, B. Szego (2007), La durata (eccessiva) dei procedimenti civili in Italia: offerta, domanda o rito?, Rivista di Politica Economica, settembre-ottobre.

4.  Per un’analisi, anche econometria, della domanda di giustizia, si veda il lavoro di A. Carmignani e S. Giacomelli (2009), Too many lawyers? Litigation in Italian civil courts, mimeo, Banca d’Italia; si vedano anche i lavori di D. Marchesi.

5.  Sulla base della Relazione presentata nel maggio del 2008 al Ministro della Giustizia Alfano dal Capo del Dipartimento dell’Organizzazione del Ministero, nel quadriennio 2002-06 le risorse destinate a consumi intermedi avrebbero subìto una riduzione del 48 per cento. Tale riduzione sarebbe stata in parte recuperata nel biennio 2007-08, ma la manovra finanziaria contenuta nella l. 133/2008 ha previsto tagli del 22 per cento nel 2009, del 30 per cento nel 2010 e del 40 per cento nel 2011.

6.  Si veda ad esempio G. Palumbo, E. Sette (2008), Career concerns and court delay, Banca d’Italia, mimeo.

7.  R. Hall e C. Jones (1999), Why do some countries produce so much more output per worker than others?, Quarterly Journal of Economics.

8.  L’altra componente è un indicatore di “apertura del paese al commercio con l’estero”.