Teoria economica e federalismo fiscale

1. Premessa
Con la fine della seconda guerra mondiale gli economisti hanno rivolto una crescente attenzione ai temi economici del federalismo; il periodo era favorevole, la teoria keynesiana, che stava conquistando gli ambienti accademici ed anche quelli istituzionali (processo che con un ritardo di una quindicina di anni sarebbe avvenuto anche in Italia), riconosceva un importante ruolo all’intervento pubblico per ragioni di stabilizzazione del ciclo economico. Al contempo vari studiosi sviluppavano l’analisi dell’intervento pubblico dal punto di vista dell’efficiente allocazione delle risorse, nonché da quello della redistribuzione del reddito.
Nel 1959 esce un testo sul quale hanno studiato generazioni di economisti del settore pubblico, The Theory of Public Finance di Richard Musgrave. In questo libro fondamentale Musgrave delinea una partizione dell’intervento dello Stato in tre branche: allocativa, redistributiva, di stabilizzazione; in tutte e tre le branche l’aspetto federale ha un ruolo che deve essere opportunamente oggetto di analisi.

2. La costruzione della teoria del federalismo fiscale
2.1. L’aspetto allocativo
Le ragioni del federalismo fiscale dal punto di vista dell’efficiente allocazione delle risorse sono quelle sulle quali si è concentrata l’attenzione degli studiosi. L’analisi dell’efficienza allocativa ha portato ad individuare una serie di “fallimenti del mercato”, cioè situazioni nelle quali i meccanismi del mercato di concorrenza non esprimono un risultato di efficienza – ovvero di ottimo paretiano, come definito dal primo teorema dell’economia del benessere – per una serie di ragioni, riconducibili in una prima fase a tre: i) presenza di beni pubblici, cioè non rivali e non escludibili, ii) effetti esterni (positivi o negativi) nella produzione o nel consumo, iii) monopoli naturali, cioè tecnologie produttive caratterizzate da grandi impianti fissi con forti economie di scala. Successivamente si sono aggiunti i motivi derivanti dall’asimmetria informativa largamente diffusa, in particolare nell’ambito dei mercati del lavoro e delle assicurazioni.
La connessione della problematica dei beni pubblici con il federalismo risulta di particolare importanza. A metà degli anni cinquanta Paul Samuelson mostra che in presenza di beni pubblici la condizione di ottimo paretiano cambia. Invece di aversi, per un dato bene, un prezzo (lo stesso per tutti i consumatori) uguale al costo marginale, l’ottimo richiede che la somma dei prezzi pagati dai cittadini sia uguale al costo marginale della produzione del bene pubblico. I singoli prezzi quindi possono – anzi devono, se le domande individuali sono diverse – essere differenti, ma secondo Samuelson non esiste un meccanismo analogo a quello del mercato che possa realizzare la condizione di ottimo. Il problema diviene popolare col termine di free rider, ed èanalizzato anche tramite lo schema del “dilemma del prigioniero” della teoria dei giochi.
La riflessione si concentra sulle caratteristiche dei beni pubblici. Alcuni fra questi beni hanno un ambito di applicazione che investe l’intero Stato (giustizia, ordine pubblico, difesa), altri sono di ambito strettamente locale, dalle strade cittadine alla fontanella rionale. Affidare i beni pubblici locali alle amministrazioni competenti, che sono organi elettivi, migliora l’efficienza allocativa, in quanto l’amministrazione locale ha una maggiore conoscenza delle preferenze dei cittadini, e le stesse preferenze sono diversificate da zona a zona. D’altra parte i cittadini che versano le imposte all’amministrazione locale sono in grado di esercitare una pressione sugli amministratori, oppure possono decidere di “votare con i piedi” cioè spostarsi da una giurisdizione ad un’altra a seconda delle loro preferenze (il paese di riferimento in queste elaborazioni teoriche sono evidentemente gli Stati Uniti).
Tuttavia anche i beni pubblici locali possono presentare degli effetti di esternalità. Se le strade cittadine interessano solo i residenti, quelle che congiungono le varie città sono di interesse comune ad un intera regione o alla nazione. L’esistenza di effetti di spillover fa sì che vi sia un ruolo dell’ente superiore rispetto a quello inferiore. Nel caso in cui gli effetti esterni sono positivi l’ente superiore è interessato ad un’espansione dell’offerta del bene da parte di quello inferiore; si possono usare a questo scopo dei trasferimenti vincolati. Ovviamente il trasferimento deve essere di ammontare superiore al livello di spesa che il comune (ad esempio) farebbe in assenza del trasferimento stesso. Se esso destinasse il 5% delle risorse a quel dato bene, e l’ente superiore volesse raddoppiare il livello dell’offerta, dovrebbe effettuare un trasferimento del 10%, in quanto il comune ne userebbe una metà per l’aumento di altri servizi.

2.2. L’aspetto redistributivo
A livello nazionale tutti gli Stati sviluppati, indipendentemente dalla forma federale o unitaria, attuano politiche volte a contenere la percentuale di poveri e più generalmente a frenare le spinte alla differenziazione dei redditi che la dinamica sociale esprime. Occorre comunque che a tutti i cittadini vengano forniti dei servizi riguardanti diritti essenziali. Queste politiche redistributive implicano un aspetto territoriale: i redditi si presentano differenziati a seconda delle aree geografiche, sicché non solo i redditi medi per regioni mostrano un’ampia diversificazione, ma anche i poveri si addensano nelle zone a reddito medio più basso.
In casi come questi le politiche redistributive mirano al sostegno del reddito, che dovrebbe essere compito dello Stato nazionale senza riferimenti territoriali, ma anche a favorire lo sviluppo economico delle aree arretrate. In questo caso una delle forme che l’intervento ha preso è stata quella dei trasferimenti volti agli investimenti, in infrastrutture ed altri investimenti in capitale fisso. La letteratura economica su questi temi si è sviluppata in paesi come l’Italia, dove gli squilibri regionali sono forti, ma poi si è estesa ad esaminare strutture sovra nazionali come l’Unione Europea.

2.3. L’aspetto della stabilizzazione
Anche le politiche di stabilizzazione interessano il federalismo fiscale, e non a caso Alvin Hansen e Jeffrey Perloff, due economisti statunitensi seguaci di Keynes, scrivono già nel 1944 un libro intitolato State and Local Finance in the National Economy. Le oscillazioni cicliche non determinano mai, soprattutto negli stati di maggiore dimensione, variazioni uniformi in su e giù dell’attività economica. Anche quando l’economia nazionale cresce ad un tasso normale si verificano andamenti diversi nelle varie parti del paese, con qualche zona dove vi può essere anche un andamento recessivo. In questo caso sono opportuni meccanismi redistributivi tra le diverse regioni (o stati) di un paese federale, gestiti ovviamente a livello nazionale, che integrino le entrate della regione dove l’andamento economico scarta negativamente rispetto alle altre. Si tratta in sostanza di una estensione ed articolazione degli stabilizzatori automatici, pronti ad entrare in funzione per contrastare gli andamenti recessivi, in modo particolare nelle zone dove c’è maggior bisogno. La regione dove l’economia soffre maggiormente, perdendo entrate dovrebbe altrimenti ridurre le spese; i trasferimenti dal centro alleviano questa spirale negativa. Il sistema di risk-sharing tra enti sub-centrali è stato approfondito dalla letteratura economica in particolare esaminando i casi di shock stocastici non (perfettamente) correlati. Questi studi riflettono il processo di sviluppo dell’unione monetaria europea.

3. Gli aspetti critici
3.1. La teoria delle scelte pubbliche
Il federalismo fiscale dunque concerne gli obiettivi dell’efficienza allocativa, ma anche quelli redistributivi e di stabilizzazione. Dietro questa impostazione vi è una visione ottimistica del ruolo dell’intervento pubblico. Si suppone che i governi e gli apparati amministrativi si conformino alle prescrizioni degli economisti, vuoi perché “ci credono”, vuoi perché in caso contrario sarebbero puniti dagli elettori.
La scuola delle “scelte pubbliche” (la cui nascita può essere datata al 1962, con The Calculus of Consent di James Buchanan e Gordon Tullock) sviluppa invece una visione pessimistica dell’intervento pubblico dell’economia: ai fallimenti del mercato contrappone i fallimenti dello Stato. In particolare gli organismi elettivi e quelli amministrativi hanno le loro proprie funzioni di utilità: mantenimento della carica, nel caso degli uomini politici, o crescita della dimensione del proprio budget da parte degli amministratori. Di conseguenza in questa impostazione i vari fondi a destinazione federale che dovrebbero servire a risolvere i problemi delle esternalità, della redistribuzione e della stabilizzazione finiscono per determinare inefficienza nell’uso delle risorse pubbliche, eccesso di spesa, crescita del debito.
Tuttavia un federalismo privo di un sistema di trasferimenti da parte del governo centrale, quindi con enti sub-centrali che si finanziano con imposte (possibilmente imposte di scopo, secondo il criterio del beneficio) o tariffe, può costituire un antidoto alla tendenza del Leviatano (il governo centrale) ad espandere le proprie funzioni e quindi il proprio peso. Si tratta di un federalismo “competitivo”, che in un certo senso introduce elementi di concorrenza in quella che altrimenti si configurerebbe come una posizione monopolistica da parte dello Stato.

3.2. Vincoli di bilancio blandi e stringenti
Di fatto tutti i sistemi federali sono dotati di un sistema di trasferimenti inter-regionali, nondimeno almeno in teoria il problema dei vincoli di bilancio laschi o rigidi può riguardare anche un sistema in cui tutte le spese dell’ente sub-centrale sono finanziate con entrate proprie, ma in cui vi sia possibilità di ricorso al debito. Il “soft budget constraint” è una terminologia introdotta nella letteratura economica dall’economista ungherese Janos Kornai con riferimento al sistema produttivo delle economie dell’est. Il termine è stato mutuato dalla analisi economica del federalismo che ha applicato la teoria dei giochi per analizzare l’interazione strategica tra governo centrale e governi sub-centrali (comune versus regione, regione versus stato).
Un governo sub-centrale può infatti andare in deficit e indebitarsi in modo non sostenibile nella convinzione che l’ente superiore interverrà al salvataggio. Il governo centrale deve allora non solo prevedere esplicitamente una clausola di “no bail out“, ma soprattutto deve applicarla in modo conseguente alla prima occasione che si presenti, costringendo l’ente sub-centrale a rientrare dagli eccessi di deficit. Altrimenti il vincolo di bilancio diventa soft e la tendenza alla sovra-espansione della spesa pubblica irresistibile. Questa letteratura si è ovviamente sviluppata dopo numerosi episodi verificatisi in America (sia del sud che del nord), come anche in Europa (basti pensare ai deficit regionali sulla sanità).

3.3. Federalismo, livelli essenziali ed elettore mediano
Un altro filone di letteratura ha utilizzato sui temi del federalismo il c.d. “teorema dell’elettore mediano”. L’idea è piuttosto semplice. Esiste un servizio pubblico sul quale deve decidere una collettività. Le domande dei cittadini sono diversificate, per preferenze o per reddito. Se si ipotizza per semplicità che si fissi un prezzo uguale per tutti, il teorema afferma che il livello del servizio sarà fissato in coincidenza della scelta effettuata dall’elettore che divide in due parti uguali i cittadini-elettori (quelli che vorrebbero una minore estensione del servizio e quelli che ne vorrebbero una maggiore). Per inciso alcuni autori hanno affermato che l’ampliarsi delle politiche di redistribuzione è stato determinato dal fatto che l’elettore mediano si trova ad un livello di reddito più basso dell’elettore (con reddito) medio; vi sarebbe cioè una maggioranza di cittadini interessati, ad esempio, a spostare l’imposta proporzionale sul reddito verso la progressività.
Se le domande dei cittadini sono diversificate dalle preferenze (ad esempio per una diversa composizione dell’età), lasciar decidere alle singole collettività è socialmente preferibile, rispetto ad un sistema di decisione accentrata. Se invece l’elemento che differenzia la domanda dei cittadini è (principalmente) il reddito, allora il problema cambia. Alcuni studi mostrano che il passaggio da un sistema centralizzato ad uno decentralizzato può portare ad un livello non ottimale nell’erogazione dei servizi; altri studi mostrano come i cittadini che risiedono nelle zone a più alto reddito medio hanno interesse a volere la (massima possibile) decentralizzazione nei servizi, in quanto in tale modo possono ottenere la stessa quantità di servizi che avrebbero col sistema centralizzato ma con un prelievo più basso, oppure una maggiore quantità di servizi a parità di prelievo.
Anche se è difficile stabilire in che misura la differenziazione delle domande dipenda dalle preferenze piuttosto che dal reddito, è plausibile che il secondo elemento sia prevalente. Si configura così un difficile problema di bilanciamento tra la richiesta di decentralizzazione che proviene, non a caso, dalle zone più ricche e l’esigenza di “livelli essenziali” che lo Stato deve assicurare a tutti i cittadini. L’esperienza degli USA è particolarmente indicativa a questo proposito, ed un esempio è costituito dalla property tax (l’imposta sul valore degli immobili) principale entrata delle contee. La property tax ha le caratteristiche di un’imposta di scopo, in quanto finanzia le scuole (pubbliche) delle contee. Poiché il valore medio degli immobili tra le diverse contee è molto diverso, le contee più ricche hanno scuole pubbliche di migliore qualità. I vari stati effettuano trasferimenti a favore delle contee più povere, ma le differenze permangono elevate. D’altra parte, alcuni referendum proposti a livello di singoli stati per elevare l’aliquota della property tax vennero respinti dalla maggioranza degli elettori, in quanto solo i cittadini delle contee povere, che avevano figli in età scolare, erano interessati ad una property tax più elevata.

4. Il Federalismo fiscale in Italia
4.1. Il finanziamento
Nel nostro paese la quota delle spese effettuate da parte degli enti sub-centrali rapportate alla spesa complessiva delle amministrazioni pubbliche, negli ultimi quindici anni è cresciuta, passando dal 26,8 per cento del 1990 al 30,8 per cento del 2006. Tuttavia se si considera che la spesa per interessi si è ridimensionata dopo l’entrata nell’euro, e si calcola la quota al netto della spesa per interessi sul debito pubblico, l’incremento è minore: 2,4 punti percentuali. Infatti le spese costituivano il 30 per cento circa una ventina di anni fa, e sono oggi (2007) quasi pari ad un terzo. Si tratta di un livello elevato rispetto agli altri paesi europei, comprese Austria, Germania e Spagna, tutti stati federali.
E’ invece notevolmente cambiata la composizione delle entrate. In venti anni la quota delle entrate tributarie proprie di comuni, provincie e regioni (a statuto ordinario), escludendo quindi sia le compartecipazioni sia i trasferimenti, è passata dal 15 per cento al 44 per cento, quasi triplicata. Sono state le innovazioni degli anni novanta, in particolare l’istituzione dell’Ici e dell’Irap, nonché delle addizionali all’Irpef, a determinare il salto. La quota delle entrate proprie sul totale delle entrate tributarie è passata dall’8 per cento al 22 per cento, percentuale nettamente maggiore degli altri paesi europei sopra citati.

Per quanto riguarda i settori di spesa, la quota principale è rappresentata dalla sanità:

Valori percentuali 2006

Sanità 44,7
Servizi generali e ordine pubblico 16,5
Affari economici 15,6
Istruzione 7,8
Protezione sociale ed altro 15,4
totale 100

I dati enunciati possono indurre a due considerazioni. La modifica del Titolo V della Costituzione, che ha ampliato il ruolo delle regioni nella spesa pubblica ha avuto fino ad oggi un riflesso piuttosto modesto sulla quota della spesa (stando a studi dell’ISAE, una piena attuazione del Titolo V porterebbe la quota della spesa al 40 per cento). La seconda considerazione è che il federalismo fiscale sotto un certo aspetto è stato già realizzato, sempre se confrontiamo la situazione italiana con quella degli altri paesi europei.

4.2. L’aspetto distributivo
La richiesta di un federalismo “tutto da costruirsi” proveniente da vasti settori del Nord Italia e di cui si fa portabandiera la Lega Nord riguarda, per così dire, la contabilità del dare e dell’avere. In un recente rapporto del nens (Nuova economia e nuova società)[1] viene calcolato il “residuo fiscale” per regione nell’anno 2006, cioè la differenza tra tutte le entrate (erariali e regionali) e le spese (regionalizzabili) pro-capite:

Entrate meno spese pro-capite

Piemonte 1.372 Marche 1.432
Valle d’Aosta -4.163 Lazio 682
Lombardia 3.971 Abruzzo -872
Bolzano -559 Molise -2.121
Trento -998 Campania -1.137
Veneto 3.267 Puglia -1.404
Friuli V. G. -574 Basilicata -2.322
Liguria -530 Calabria -2.607
Emilia Romagna 3.625 Sicilia -2.648
Toscana 1.351 Sardegna -1.415
Umbria -598

Ne risulta un quadro molto chiaro: tutte le regioni a statuto ordinario del Nord, con l’eccezione della Liguria, versano più imposte di quanta spesa non ricevano. La situazione è capovolta per tutte le regioni del Sud, mentre nelle regioni del centro si alternano regioni in “attivo” e regioni in “passivo”.
Tuttavia, le regioni del Sud non spendono più di quelle del Nord. La tavola 2.2 del rapporto nens chiarisce questo aspetto, con riferimento ad una spesa pubblica media pro-capite di 11.406 euro nel 2004:

Numeri indici della spesa pro-capite (Italia = 100)

Regioni a st. ord. Nord 103,8
Regioni a st. sp. Nord 131,7
Centro (senza il Lazio) 105
Lazio 127
Regioni a st. ord. Sud 80,6
Isole (st. sp.) 90,6

L’oscillazione di circa 50 punti tra le regioni a statuto speciale del Nord e le regioni a statuto ordinario del Sud. Il Lazio si situa a livelli vicini a Val d’Aosta, Friuli, Bolzano e Trento. Ciò deriva dal fatto che a Roma operano la maggior pare degli addetti ai Ministeri e agli altri organi centrali della P.A., mentre l’attività che viene svolta non va a favore degli abitanti del solo Lazio, ma di tutta l’Italia (e comunque il residuo fiscale del Lazio è positivo, non negativo).
I residui fiscali dunque non dipendono dalla distribuzione della spesa, ma piuttosto da quella del prelievo, e innanzi tutto dal fatto che il Pil pro-capite della Lombardia è doppio rispetto a quello della Calabria. Se si considera la somma delle imposte erariali, dell’Irap e delle addizionali regionali, rapportata al Pil pro-capite (sempre nel 2004), la pressione media nazionale è del 25 per cento; le regioni del Nord hanno una pressione più elevata, con un massimo in Liguria (27,1 per cento), ma con due eccezioni: Trentino Alto Adige (24,5 per cento) e Veneto (23,7 per cento). Al contrario le regioni del Sud hanno pressioni inferiori alla media, con un minimo in Basilicata (21,3 per cento), ma l’Abruzzo si colloca sopra la media (25,7 per cento). Le regioni centrali sono vicine alla media, con un massimo per l’Emilia-Romagna (26,3 per cento) ed un minimo per le Marche (24,3 per cento).
I risultati dipendono dal fatto che il grado di evasione è più alto nel Sud che nel Nord, ma questa spiegazione non è esaustiva. Esiste una relazione molto significativa tra pressione fiscale e Pil pro-capite identificata per la prima volta da Musgrave in Fiscal Systems (1966) che vale sia tra paesi diversi sia tra aree di uno stesso paese. Il rapporto nens mostra che la relazione è valida anche nel caso italiano (grafico 2.1); con una crescita di 0,17 punti di pressione fiscale ogni 1000 euro di incremento del Pil pro-capite. Gli scostamenti maggiori si incontrano verso in basso per Basilicata e Veneto, e verso l’alto per Abruzzo e Liguria. In sostanza le regioni si distribuiscono un po’ sopra ed un po’ sotto la media, ma senza nessun criterio distintivo tra Nord e Sud.

4.3.Spesa e finanziamento nel Titolo V
La riforma del Titolo V della Costituzione ha ampliato le materie di competenza delle regioni a statuto ordinario, anche se fino ad oggi i dati di bilancio mostrano una spesa complessiva ferma su circa un terzo. Le indicazioni dell’art. 119 sul sistema di finanziamento sono molto generali. Regioni ed enti locali hanno tributi propri e compartecipazioni a tributi erariali; vi è un fondo perequativo per le zone a minore capacità fiscale, senza però vincoli di destinazione; tuttavia sono previste risorse aggiuntive ed interventi speciali per alcune zone, il che può configurare una parziale reintroduzione di trasferimenti destinati a spese specifiche.
In termini generali, il problema che si pone può essere sintetizzato in questi termini: da un lato è necessario trovare un equilibrio tra il rispetto dei livelli essenziali ed il riconoscimento di una autonomia di scelta circa il livello delle prestazione; dall’altro lato il finanziamento dei livelli essenziali richiede un ammontare di trasferimenti a scopo perequativo a favore delle regioni a minore capacità fiscale, ammontare tanto più rilevante quanta maggiore è la differenza nei livelli di reddito medi regionali. Inoltre tra le entrate diverse dai trasferimenti vanno distinte le imposte proprie, in cui l’ente subalterno ha un grado (più o meno grande) di autonomia, dalle semplici compartecipazioni, quote dei tributi erariali. Infatti solo le imposte proprie (o le tariffe) rispondono – entro certi limiti – al criterio del beneficio, per cui i cittadini che pagano questi tributi sono anche gli elettori che giudicano sull’operato degli amministratori.
Tuttavia un sistema di finanziamento basato in misura prevalente sulle imposte proprie implicherebbe per le regioni a reddito maggiore un surplus di entrate, ed al contrario per quelle a reddito minore un deficit. Lo stesso vale per le compartecipazioni a tributi erariali, a meno che la compartecipazione non venga delineata in modo tale da evitare il fenomeno. Questo ad esempio accade in Svezia, dove la compartecipazione all’imposta sul reddito si limita alla prima aliquota (cioè all’aliquota del primo scaglione, e quindi ai redditi che si collocano entro il limite del primo scaglione).

4.4. Il disegno di legge delega
Il ddl sul federalismo è all’esame del Senato. Non ne è possibile in questa sede una disamina particolareggiata. Nel testo è facile rinvenire un giudizio critico sull’esperienza passata dei trasferimenti agli enti locali, basati sulla spesa storica. Tra le righe si legge anche che le risorse sono usate in modo non efficiente, e che un uso efficiente delle risorse consentirebbe un minor livello di spesa pubblica complessiva, e quindi di prelievo fiscale.
In sintesi le spese vengono divise in due grandi categorie: quelle inerenti ai livelli essenziali (di cui all’art.119 della Costituzione) e le altre. Per le prime il finanziamento deve assicurare l’ammontare di risorse necessario (e sufficiente) al soddisfacimento delle prestazioni, valutando quest’ultime ad un livello di costo “standard“. Per le seconde invece si lascia spazio alla differenziazione nelle prestazioni, con un riferimento iniziale alla spesa storica.
Il finanziamento avviene con tributi propri, compartecipazioni e ovviamente trasferimenti dal fondo perequativo, come indicato dall’art. 117. Per quanto riguarda le regioni, i tributi propri vengono divisi in tre gruppi: i) i tributi derivati da leggi statali, ii) le aliquote riservate a valere sulle basi imponibili dei tributi erariali, iii) i tributi propri istituiti dalle regioni su presupposti non assoggettati da tributi erariali. Per le spese connesse con i livelli essenziali viene specificato che il finanziamento avviene con i tributi propri, con la riserva di aliquota sull’Irpef oppure dell’addizionale regionale all’Irpef, e con la compartecipazione all’Iva. Infine vi sono quote specifiche del fondo perequativo.
La riserva di aliquota sull’Irpef non compariva nei primi testi della legge delega. Il suo inserimento si può spiegare tenendo presente che in una proposta di legge della regione Lombardia era prevista l’istituzione di un’imposta regionale sul reddito delle persone fisiche con aliquota del 15 per cento, e che le aliquote dell’Irpef scendevano tutte di quindici punti. Tuttavia definire tributo proprio una riserva di aliquota è molto curioso. I tributi propri sono prelievi che i cittadini di una regione versano senza che le entrate statali subiscano variazioni. Le addizionali all’Irpef certamente sono entrate proprie. D’altra parte se la riserva di aliquota fosse fissa, non sarebbe altro che una compartecipazione, a parte il problema di definire esattamente che cosa si intenda. Ma il testo parla della possibilità di modificare le aliquote (entro certi limiti) e disporre esenzioni, detrazioni, deduzioni e speciali agevolazioni.
Non è chiaro su chi ricade l’onere di queste variazioni. Se dovesse ricadere sul gettito erariale avremmo un elemento fortemente illogico nel sistema, oltre al rischio di avere tante Irpef diverse quante sono le regioni. Se si tiene presente che all’Irpef è demandato un ruolo importante nelle politiche redistributive – ed in particolare di attuare l’equità verticale in tema di imposizione fiscale – possiamo concludere che la presenza di una riserva di aliquota contraddice la divisione dei compiti fissata da Musgrave, tra obbiettivi allocativi e redistributivi.
Un altro aspetto problematico è il livello dei costi standard sulla base dei quali definire l’ammontare delle risorse – tributi propri, compartecipazioni o trasferimenti – che le regioni devono ricevere. Le indicazioni del testo di legge delega sono vaghe, si parla di “prestazioni da erogarsi in condizioni di efficienza e di appropriatezza su tutto il territorio nazionale per assicurare l’adeguatezza nel livello delle prestazioni”; va notato che il termine “adeguatezza” ha preso il posto, per emendamento, dei due termini: “omogeneità e uniformità”. La modifica sembra mirare a rendere più elastica la valutazione delle prestazioni in materia di sanità, assistenza ed istruzione. Viene inoltre specificato che le aliquote dei tributi propri e delle compartecipazioni devono essere fissate “al livello minimo assoluto sufficiente ad assicurare il pieno finanziamento….in una sola regione”. Questo punto è stato oggetto di successive modifiche. Nella prima versione si parlava di “almeno tre regioni”, poi di “1/3/6 regioni”, ed infine nel testo mandato alla Camera di “almeno una regione”; la dizione “una sola regione” è frutto di un emendamento.
Se i tributi propri e le compartecipazioni devono assicurare il finanziamento a più di una regione, avendo esse capacità fiscale diseguale, i livelli delle aliquote e delle quote di compartecipazione dovranno essere più elevati rispetto al caso in cui si tratti di assicurare il finanziamento ad una sola regione, se questa ha maggiore capacità fiscale (cioè la Lombardia). Ma allora perché non dire che il livello deve assicurare il finanziamento alla regione con maggiore capacità fiscale (o direttamente alla Lombardia)?

5. Conclusioni
Viene spesso citata una frase di de Tocqueville: “The Federal system was created with the intention of combining the different advantages which result from the magnitude and the littleness of nations” (Democracy in America). Tuttavia de Tocqueville riteneva che la tendenza degli stati moderni fosse verso la centralizzazione. Si può dire che egli aveva visto giusto, e che il processo è continuato fin dopo la seconda guerra mondiale. Il novecento ha visto la creazione del welfare state, l’intervento pubblico nella produzione, fenomeni che richiedevano un intervento centralizzato.
Negli ultimi trenta anni il pendolo sta virando nella direzione opposta; le richieste da parte delle comunità locali di contare di più e di trattenere una quota maggiore del reddito prodotto sono divenute più forti, al punto da arrivare a disgregare preesistenti stati unitari, a volte in modo drammatico. Nel caso italiano a queste spinte si accompagna un giudizio molto critico del modo in cui le zone a minore capacità fiscale utilizzano le risorse che vengono loro trasferite. L’idea che la spesa (pro-capite) sia maggiore nel Sud è infondata, ma se dalla spesa monetaria passiamo ai servizi effettivamente erogati, è molto probabile che il rapporto spesa/qualità sia sbilanciato. Un esempio per tutti: con l’eccezione delle regioni a statuto speciale del Nord, la spesa per istruzione è relativamente uniforme sul territorio nazionale; ma l’indagine PISA dell’OECD mostra delle differenze di risultati scolastici tra Nord e Sud veramente sorprendenti, sui quali si interrogano da tempo gli studiosi.
La riforma del Titolo V della Costituzione e la legge delega in discussione al Senato si iscrivono in questo movimento del pendolo. Molti studiosi hanno rilevato che i numerosi principi e le indicazioni della delega possono portare a modalità di attuazione molto diverse tra loro, a seconda di come verrà interpretato il concetto di costo standard, di quali saranno con esattezza i servizi essenziali, di cosa significherà in concreto “adeguatezza” del servizio. Gli amministratori del Nord contano di ricevere, col federalismo, maggiori risorse; quelli del Sud sperano di non perderne. Il rischio di un aumento della spesa pubblica è reale.

Materiali collegati:

Note

1. Dottrina e prassi di un federalismo consapevole, novembre 2008, tavola 2.1, www.nens.it