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Teoria economica e federalismo fiscale

di - 10 Marzo 2009
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2.2. L’aspetto redistributivo
A livello nazionale tutti gli Stati sviluppati, indipendentemente dalla forma federale o unitaria, attuano politiche volte a contenere la percentuale di poveri e più generalmente a frenare le spinte alla differenziazione dei redditi che la dinamica sociale esprime. Occorre comunque che a tutti i cittadini vengano forniti dei servizi riguardanti diritti essenziali. Queste politiche redistributive implicano un aspetto territoriale: i redditi si presentano differenziati a seconda delle aree geografiche, sicché non solo i redditi medi per regioni mostrano un’ampia diversificazione, ma anche i poveri si addensano nelle zone a reddito medio più basso.
In casi come questi le politiche redistributive mirano al sostegno del reddito, che dovrebbe essere compito dello Stato nazionale senza riferimenti territoriali, ma anche a favorire lo sviluppo economico delle aree arretrate. In questo caso una delle forme che l’intervento ha preso è stata quella dei trasferimenti volti agli investimenti, in infrastrutture ed altri investimenti in capitale fisso. La letteratura economica su questi temi si è sviluppata in paesi come l’Italia, dove gli squilibri regionali sono forti, ma poi si è estesa ad esaminare strutture sovra nazionali come l’Unione Europea.

2.3. L’aspetto della stabilizzazione
Anche le politiche di stabilizzazione interessano il federalismo fiscale, e non a caso Alvin Hansen e Jeffrey Perloff, due economisti statunitensi seguaci di Keynes, scrivono già nel 1944 un libro intitolato State and Local Finance in the National Economy. Le oscillazioni cicliche non determinano mai, soprattutto negli stati di maggiore dimensione, variazioni uniformi in su e giù dell’attività economica. Anche quando l’economia nazionale cresce ad un tasso normale si verificano andamenti diversi nelle varie parti del paese, con qualche zona dove vi può essere anche un andamento recessivo. In questo caso sono opportuni meccanismi redistributivi tra le diverse regioni (o stati) di un paese federale, gestiti ovviamente a livello nazionale, che integrino le entrate della regione dove l’andamento economico scarta negativamente rispetto alle altre. Si tratta in sostanza di una estensione ed articolazione degli stabilizzatori automatici, pronti ad entrare in funzione per contrastare gli andamenti recessivi, in modo particolare nelle zone dove c’è maggior bisogno. La regione dove l’economia soffre maggiormente, perdendo entrate dovrebbe altrimenti ridurre le spese; i trasferimenti dal centro alleviano questa spirale negativa. Il sistema di risk-sharing tra enti sub-centrali è stato approfondito dalla letteratura economica in particolare esaminando i casi di shock stocastici non (perfettamente) correlati. Questi studi riflettono il processo di sviluppo dell’unione monetaria europea.

3. Gli aspetti critici
3.1. La teoria delle scelte pubbliche
Il federalismo fiscale dunque concerne gli obiettivi dell’efficienza allocativa, ma anche quelli redistributivi e di stabilizzazione. Dietro questa impostazione vi è una visione ottimistica del ruolo dell’intervento pubblico. Si suppone che i governi e gli apparati amministrativi si conformino alle prescrizioni degli economisti, vuoi perché “ci credono”, vuoi perché in caso contrario sarebbero puniti dagli elettori.
La scuola delle “scelte pubbliche” (la cui nascita può essere datata al 1962, con The Calculus of Consent di James Buchanan e Gordon Tullock) sviluppa invece una visione pessimistica dell’intervento pubblico dell’economia: ai fallimenti del mercato contrappone i fallimenti dello Stato. In particolare gli organismi elettivi e quelli amministrativi hanno le loro proprie funzioni di utilità: mantenimento della carica, nel caso degli uomini politici, o crescita della dimensione del proprio budget da parte degli amministratori. Di conseguenza in questa impostazione i vari fondi a destinazione federale che dovrebbero servire a risolvere i problemi delle esternalità, della redistribuzione e della stabilizzazione finiscono per determinare inefficienza nell’uso delle risorse pubbliche, eccesso di spesa, crescita del debito.
Tuttavia un federalismo privo di un sistema di trasferimenti da parte del governo centrale, quindi con enti sub-centrali che si finanziano con imposte (possibilmente imposte di scopo, secondo il criterio del beneficio) o tariffe, può costituire un antidoto alla tendenza del Leviatano (il governo centrale) ad espandere le proprie funzioni e quindi il proprio peso. Si tratta di un federalismo “competitivo”, che in un certo senso introduce elementi di concorrenza in quella che altrimenti si configurerebbe come una posizione monopolistica da parte dello Stato.

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