Su un manoscritto giuridico del Mille

Dal dicembre 2008 parlare dell’opera Adnotationes codicum domini Iustiniani – raccolta di compendi delle costituzioni del Codice Giustiniano più nota come Summa Perusina (dalla città che ha avuto la ventura di conservarla) – implica dar conto, accanto all’antico manoscritto ora ‘tirato a lucido’ con un restauro conservativo, di due nuovi volumi appena editi: la riproduzione fotografica in facsimile che per la prima volta lo rende facilmente accessibile a tutti; la ristampa anastatica della principale edizione critica dovuta nel 1900 a Federico Patetta e ormai introvabile se non in alcune biblioteche[1].


Celebrazione del settimo centenario dell’Ateneo perugino (un traguardo ragguardevole anche nella tradizione italiana di risalenti istituzioni universitarie) e insieme omaggio alla Città, restauro, riproduzione, anastatica mirano a «la più ampia conoscenza» dell’opera, a «la più attenta conservazione» del manoscritto per il tempo a venire: come avevano chiesto con mozione ufficiale gli studiosi della tarda antichità riuniti a Perugia da più parti del mondo in un convegno sui problemi di critica testuale delle loro fonti.
Sul perché l’opera vada valorizzata e il manoscritto preservato, basti che si tratta di un prezioso patrimonio librario, un unicum al mondo.
Scelgo un altro punto di vista.
Dal nostro presente, sulle soglie del terzo millennio, Summa Perusina e occasione che con essa si celebra inducono a guardare ‘in giù’, come in una valle di cui non si intravede il limite, verso i secoli trascorsi.
L’occasione. Con rapida retrocessione ci porta al 1308. Tutta un’altra Perugia. Altri abbigliamenti, altri costumi, altri problemi, ma anche allora una città con i giovani, dei giovani: Perugia ha istituito la sua Università. Certo, quanto diverse l’una e l’altra. E quante vicende tra noi e loro. E un balenio di nomi illustri in questo fulmineo spostarsi all’indietro: Alberico Gentili… Baldo degli Ubaldi… Bartolo da Sassoferrato, che ancora riposa in città a San Francesco al Prato nel sepolcro che bastò indicare come Ossa Bartoli
Ma la Summa è ancora più antica. Porta più indietro, assai di più.


Prima metà del secolo Mille. In qualche zona della fascia costiera centromeridionale (quella leggenda di Amalfi…), forse un angolo di provincia, chino sul suo lavoro uno scriba sta copiando. Naturalmente usa la grafia stilizzata che serve a rendere chiari i manoscritti, ma ne ha adottato un tipo, la minuscola carolina, che non gli è abituale  – perché? – e si sforza di farla sua. Di certo opera in un‘area di influenza bizantina: mentre l’Italia non sa più il greco, a un collega che lo affianca giusto alla fine del lavoro sfugge un omega al posto di una o, un sigma al posto di una s.
Ma potrebbe non essere il Mille. Forse è ancor prima: forse sta lavorando in pieno Novecento. Tempo e situazioni che ci sono quasi ignoti: una società con le sue crisi, le sue paure (“Mille e non più mille” …).
L’opera che lo scriba sta copiando non gli è in ogni caso coeva: è ben più antica.
Se davvero fu redatta nel settimo secolo (da chi non si sa, ma una datazione è ricostruibile), nel nostro viaggio a ritroso siamo arrivati ormai a un periodo imprecisato fra 700 e 601.
La nostra visione d’assieme è sempre più vaga: oscura, direi. La Scuola di Bologna  è di là da venire: dovranno passare ancora secoli. Non abbiamo né autori né testi a fornirci punti di riferimento.

Eppure – è quasi certo – il nostro autore è a sua volta alle prese con un lavoro precedente. Ha davanti una copia del Codice Giustiniano, un po’ particolare; qualcun altro prima di lui ha dotato ciascuna costituzione di un breve sommario. Questi piccoli riassunti – deve pensare il nostro ignoto amico – sarebbe comodo averli tutti insieme e di seguito: secondo l’ordine in libri e titoli che ha dato l’imperatore, ma in una versione semplificata, priva del testo originale giustinianeo ormai così complesso da intendere. E lavora a fare, soltanto con quei sommari, un altro libro, le sue adnotationes, anche se la sostanza normativa vuol essere sempre quella del dominus Iustinianus e del suo codex. Il che ci sospinge ancora più indietro, e più lontano. 534, Costantinopoli, la sontuosa corte giustinianea.
Sembra quasi impossibile essere discesi tanto nel tempo (per continuare la metafora), che pure veniamo ‘trascinati’ ancora più indietro nel gorgo dei secoli.
I compendi così come i testi originari del Codex, le leges che la Summa riassume, vengono da costituzioni, variamente rimaneggiate, di imperatori romani. La più antica risale ad Adriano, C. 6.23.1. Poche parole, parte di un testo più lungo, di cui la Summa dà conto riducendole ancora, su una questione di testamenti (una passione romana): che restano validi anche ove i testimoni, liberi al momento della redazione, siano poi divenuti servi.
Adriano: siamo giunti a ritroso tra 138 e 117. L’impero al massimo dello splendore celebra i propri fasti in una ancora serena paganità. Fanno cent’anni che in terra di Giudea i Romani hanno crocifisso quel Cristo che scandirà cronologicamente la nostra era.
È trascorso un millennio da quando il volume fu approntato. Pure, le singole lettere delle parole son nitide. Si intravedono le righe per andare dritto tracciate con punta secca di metallo (per la grafite bisognerà aspettare un duecento anni); il bruno dell’inchiostro ha un tono deciso; brilla lucido il rossoarancio del minio per i capilettera. Tanto risalente di fattura, il manoscritto risulta nella sua materiale consistenza così ‘recente’.
Ha del miracoloso che questa “copia di rappresentanza” (la sua destinazione alta è quasi certa) abbia resistito al tempo, sia giunta pressoché intatta fino a noi: un regalo, specialissimo, della storia.
Ma dietro al ‘miracolo’ ci sono una serie di uomini al lavoro.
Il copista, naturalmente: una coppia anzi, ché nelle pagine finali si alternano chiaramente due mani diverse, anche se è il primo dei due, che ha compiuto la massima parte della trascrizione, a concluderla. Ha reso possibile il miracolo della sopravvivenza il suo lavoro accurato. E lungo: sette od otto mesi almeno, può calcolarsi. Pure, non si è posto riparo alla strana disarmonia iniziale. Nella fascia decorativa della prima pagina, dei fiori a quattro petali inscritti in un cerchio a compasso due sono colorati, il terzo no. Ha un qualche significato o è solo una svista per l’urgenza della consegna? E il committente non se ne è accorto? Non ha preteso il completamento? Non sappiamo, ma, singolarmente, ci rende più vivo, e più vicino, chi ha operato.
E non c’è solo questo lavoro nel volume.

C’è stato chi ha preparato dalla pelle ovina la pergamena per l’uso scrittorio. Una operazione altamente tossica (non sempre risalenza significa armonia con la natura); un grande impegno di risorse. Se ogni pubblicazione in carta non riciclata comporta un buco nel verde del pianeta, anche qui si è consumato un sacrificio, animale anziché vegetale. Occorsero fra le cinquanta e le cento pecore, a secondo della loro grossezza e della piegatura per l’arrangiamento dei fascicoli. Per questo solo esemplare, si intende: una ecatombe. Perfino di quelle povere bestie il manoscritto ci ‘parla’; in un foglio il margine basso curvato all’indentro rivela ad occhi esperti l’attacco di una zampetta.
E poi chi ha predisposto i ventisei “quaderni” che compongono il volume, piegando verosimilmente i fogli una o due volte e rispettando nell’alternarsi delle facciate la sequenza lato pelo/lato carne, così che l’effetto finale della scrittura risulti armonioso.
Di chi ha trascritto, ho già detto. Forse amava qualche pausa giocosa nella fatica, se per una segnalazione ricorre al disegno di un omino con l’indice teso.
Poi chi ha provveduto alla legatura.
E i bibliotecari cui via via il manoscritto è stato affidato: vi è ancora traccia di loro nel sovrapporsi di cartellini con le segnature.
Ma anche coloro che l’hanno custodito e protetto con premura e riguardo.
E – ancora – quanti utilizzando questo testo di diritto per il proprio lavoro l’hanno rispettato, consentendone la trasmissione ai posteri. Che l’opera tràdita dal nostro manoscritto abbia circolato è certo: è stata utilizzata; è servita per altri lavori. In manoscritti coevi e successivi sue citazioni precise sono state individuate, come abili investigatori, dagli studiosi.
In tempi più recenti un ruolo lo giocano anche questi ultimi. Tedeschi che vengono a Perugia e vi lavorano: 1817, Niebuhr per primo riporta il manoscritto alla conoscenza; venti anni dopo, Heimbach ne tenta una prima edizione e gli dà il nome di Summa Perusina con cui verrà più usualmente citato. E, 1900, il nostro Federico Patetta: è sua l’edizione critica, introvabile e a tutt’oggi insuperata, che abbiamo voluto ristampare. Nel manoscritto permane un segno, fisico, del suo ‘passaggio’: la numerazione delle carte, rigorosamente a lapis, è (lo sappiamo con certezza) di sua mano.
In questo manoscritto (come in molti altri, ma è del ‘nostro’ che si sta parlando), cogliamo così una rete di mille fili impalpabili.
Una ‘rete’ che avvicina le generazioni: non moltissime, in fondo – per la nostra tradizione centoventi all’incirca dalla fondazione di Roma – anche se spesso non si riesce a risalire come vera conoscenza oltre quella dei nonni o dei bisnonni.
Una ‘rete’ che sembra collegare fra loro tanti uomini al lavoro, anche se per lo più inidentificabili.
«È la storia, bellezza», vien da dire a mo’ di Humphrey Bogart.

Il manoscritto (con tutta la dimensione temporale che ci ha schiuso) è però nella Biblioteca del Capitolo, presso la Cattedrale di San Lorenzo, che ha saputo trasmetterlo ad oggi: come è giusto, al sicuro, perché sopravviva anche a noi. Non è immediatamente accessibile; non è fruibile da chiunque.

Di qui, la sua riproduzione: in un volume che lo ‘replica’ con la maggior accuratezza possibile. Rispetto delle dimensioni, 1 a 1; carte fotografate singolarmente e riprodotte su un foglio di base nel loro profilo originale, cosicché chi guarda veda di ciascuna la immagine esatta, senza uniformità fallaci per esigenze di rifilatura; finanche la incassatura manuale in una copertina rigida (analoga all’originale), in cui si legge l’attuale segnatura come manoscritto 32: tutto con l’obiettivo di fedeltà di riproduzione. Fin dove tecnicamente realizzabile, privilegiandola alla ripetizione esatta dei materiali per lo più impossibile. Aver effettuato l’operazione prima del restauro ha inoltre un vantaggio: ‘fissa’, anche per il futuro, l’immagine del manufatto così come giunto al settembre 2008, con i segni operàtivi dal tempo, quei segni cui giustamente il restauro, pur soltanto conservativo, deve porre, come ha fatto, rimedio. Così che nella riproduzione si scorgono le macchie della pergamena, uno squarcio che vi si era prodotto, i fori dei tarli, un angoletto ripiegatosi sul margine: che nel manoscritto ora non si vedono più o si colgono appena.

Di una felice riuscita testimonia la stessa sensazione, ‘fisica’ vorrei dire, che dà il volume, piacevole al tatto oltre che alla vista. Riconosciamone il merito a un impegno sentito dell’Editore, che possiamo inserire – per fortuna nominativamente – in quella lunga schiera di ‘uomini al lavoro’ di cui si diceva.

Certo, irriproducibile resta l’emozione che nella sua severa bellezza dà l’originale.
Tuttavia emozione, di altro tipo, suscita anche la possibilità che solo la riproduzione consente: di sfogliare in tutta tranquillità il volume, ovunque si voglia; di fermarsi, quanto si voglia, a leggere e a studiare i testi. Se non tutti possono ‘andare al’ libro – è stato detto – ora è il libro che può ‘andare’ a tutti. Per giunta avendo nuovamente disponibile, facilmente procacciabile, la guida preziosa di Patetta.
Magari a un altro centenario di questa o di un’altra università, un altro Rettore, un altro Preside, un’altra Accademia torneranno a porsi questo problema o uno analogo e grazie alla lungimiranza di altri sponsor garantiranno ancora per un ulteriore tratto la sussistenza di un prodotto della creatività umana, testimonianza di quanto è stato, legame con quanto sarà.

Un debito di gratitudine al passato si paga proiettandosi al futuro.
Tutto quello che ancora non sappiamo della Summa e insieme la possibilità di un contatto approfondito e costante con l’opera che consentono questi più agevoli strumenti di lavoro oggi resi disponibili crediamo possano stimolare a nuove ricerche: per un più preciso inquadramento di manufatto scrittorio e testo contenutovi nell’ambito delle rispettive culture di riferimento. Ricerche che abbisognano di prospettive diverse e complementari, di competenze specifiche e della loro interazione (con i nuovi strumenti, confidiamo, più facile): il latinista e il paleografo ma anche – non occorre dirlo – il giurista, di diritto romano così come di diritto altomedievale.
Non tutto potrà essere risolto; molto, allo stato, è destinato a rimanere senza risposta. Ma ogni piccolo passo innanzi ritesse quell’intrecciarsi di molti fili, ne recupera un pezzettino.
Abbozzo, senza ordine, un elenco di quesiti.
L’identità dell’autore o quantomeno una sua ‘localizzazione’; chi commissionò la trascrizione giudicando ben speso un prezzo che non poté essere insignificante; la destinazione e lo scopo a cui pensava; il latino usato; una più definita ambientazione della operazione scrittoria.
Soprattutto, certe scelte di contenuto: che possono aiutare a capire come e in quali direzioni venisse evolvendosi il contesto giuridico.

E, ancora, perché e come, il manoscritto giunga a Perugia; soprattutto perché vi si fermi. Infine, come mai (ma potrebbe esser casuale) di un’opera certamente circolata sia sopravvissuto, a quanto sappiamo, solo questo esemplare. Se la Biblioteca del Capitolo non avesse conservato il volume, se esso non fosse stato recuperato alla conoscenza, nulla sapremmo della Summa Perusina.
Con un gioco di fantasia piace costruire un legame tra la nostra Università in formazione e il manoscritto.

Ho detto essenzialmente di suggestioni che un’opera di questo tipo sollecita: dilatazione temporale, forza evocativa. Spero si possa esserne intrigati, come me. O se il coinvolgimento non sia per mia insufficienza riuscito, che funzioni invece in un ‘contatto a tu per tu’. L’avere a che fare con la storia, che antichi testi come il nostro consentono in concreto, attenua la presunzione di sentirci punto d’arrivo. Ci immerge in un continuum discontinuo, ove siamo solo momento di un percorso: che comincia ben prima di noi, che proseguirà ben dopo di noi.
Voglio chiudere sul contenuto giuridico della Summa, in poche battute.
Ricorro a una parola che mi piace: i «forensi». L’ha inventata Gino Gorla per designare gli avvocati come i giudici, i notai come i più modesti operatori del diritto. Se di tanti (la maggioranza) non è possibile conoscere l’individualità, trascurare di considerarne l’apporto alla edificazione del giuridico darebbe una ricostruzione falsata della realtà.
Vi metto accanto un’altra parola che pure mi piace molto: «esperienza giuridica». La usa Riccardo Orestano, che non l’ha inventata ma mutuandola da altri l’ha ricreata. Serve per parlare di diritto considerandone ogni profilo: norme scritte quanto consuetudine, quotidiano operare degli uomini in rapporto tra loro così come riflessione della scienza sul fenomeno. L’intento è non escludere aprioristicamente niente di quanto, in qualsiasi angolo della terra e in qualsiasi epoca, sia, o sia stato, considerato “diritto”.
La Summa Perusina è strumento che consente di indagare l’esperienza giuridica della sua epoca, per capire tramite quali vie si venisse forgiando: anche grazie ai forensi.
Per farmi meglio intendere, ricorro alla mozione ufficiale che ho ricordato all’inizio.
Che il Codex, epitomato dalla Summa, appartenga (cito) ai «testi che hanno dato l’orditura e lo stampo alla vita ordinata delle nazioni» spiega certamente la straordinaria importanza della Summa: che aiuta infatti a ricostruirlo.
Non meno importante, peraltro, è che il compendio in sé sia (torno a citare) «traccia di quello strato profondo della esperienza giuridica, su cui nella varietà dei linguaggi» (e delle popolazioni) «poggia la più ampia unità dell’Europa e del mondo». Aggiungo: “traccia” di quella “esperienza” proprio nel suo farsi.
Sulla necessità/inevitabilità di un continuo adeguamento del diritto (“di giorno in giorno”, «cottidie») che ne consenta/garantisca il sussistere si pronunciava con chiarezza già nel secondo secolo d.C. il giurista Pomponio, legandone il compito al suo ceto (a chiunque di esso: «aliquis iuris peritus»). A tramandarlo – Pomponius libro singulari enchiridii, D. 1.2.2.13, «quod constare non potest ius, nisi sit aliquis iuris peritus, per quem possit cottidie in melius produci» – è nel sesto secolo Giustiniano nel suo Digesto: con pari consapevolezza di una condicio humani iuris che si muove senza sosta e in cui “non c’è nulla che possa rimaner fermo per sempre” («semper in infinitum decurrit et nihil est in ea, quod stare perpetuo possit», Tanta 18), ma affidandone la gestione al potere imperiale.
È in questa chiave di divenire (muta il contesto, mutano i problemi, mutano le soluzioni) che credo occorra guardare al nostro manoscritto.
Con i travisamenti, gli errori, le scelte (o gli involontari abbandoni) rispetto al testo originario del Codex Iustinianus – che al compendio sono imputati, che certo ci sono – la Summa Perusina testimonia del diritto nella vita degli uomini.
Il passato: un bagaglio troppo pesante che impaccia l’accesso al futuro, come è stato detto? O – piuttosto – non qualcosa che ‘ci portiamo appresso’, ma che invece  ‘s  i  a  m  o’ ?

Dicembre 2008 – Gennaio 2009

Note

1.  Il testo riprende quanto detto alla presentazione del 9 dicembre a Perugia nella sede (Palazzo Graziani, Sala delle Colonne) della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia: il suo sostegno ha reso possibile la realizzazione del “Progetto Summa Perusina“, promosso per il settimo centenario dell’Ateneo perugino dalla Accademia Romanistica Costantiniana, Centro Universitario di Studi sul Tardoantico, in collaborazione con la Facoltà di Giurisprudenza. In una felice interazione cittadina Università, Consiglio Notarile, Ordine degli Avvocati, Associazione Accademia Storico-Giuridica Costantiniana hanno contribuito alla iniziativa. La ristampa dell’edizione critica Patetta si arricchisce della prefazione – A chi legge – di esperti quali Severino Caprioli e Giovanni Diurni (Univ. Roma Tor Vergata). Nella complessa operazione della riproduzione facsimilare del manoscritto (con Nota introduttiva di G. Crifò e M. Campolunghi) sono state di grande utilità le competenze paleografiche di Antonio Ciaralli (Univ. Perugia), dotando il volume di una Nota codicologica. In una Nota tecnica sull’edizione l’editore Mauro Pagliai dà conto delle scelte resesi necessarie. Del restauro informa la brochure con foto inserita nel volume.