Era morto e non lo sapeva.
Intorno al regolamento di giurisdizione

1. Forse non tutti sanno che il sistema della nostra giustizia civile, affidato al giudice ordinario, come tutti viceversa sanno, è attraversato da un dubbio su se stesso, sul potere e dovere del giudice di decidere la causa. Fin dai primissimi articoli il codice di procedura civile gli prescrive di chiedersi se ha giurisdizione (art. 37: “il difetto di giuri­sdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione o dei giudici spe­ciali è rilevato, anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo”); prosegue all’art. 41 consentendo a ciascuna parte di chiedere alle sezioni unite della Cassazione di risol­vere le questioni di giurisdizione, finché la causa non sia decisa nel merito in primo grado; addirittura – prosegue ancora l’art. 41 – l’amministrazione che non sia parte in causa può chiedere alle sezioni unite che venga dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice ordinario in ogni stato e grado del giudizio. Tutto ciò è coronato dalla norma sul ricorso per cassazione: al primo posto, tra i motivi per cui si possono impu­gnare le sentenze per cassazione, stanno i “motivi attinenti alla giurisdizione” (art. 360, n. 1).
Il dubbio, dunque, se il giudice fondamentale del nostro ordinamento, il giudice or­dinario, possa giudicare nella causa per cui è stato adito, attraversa il codice. Se lo deve chiedere sempre, anche d’ufficio; non solo, concluso il giudizio di merito, si può ricominciare a discutere in cassazione se il giudice ordinario si poteva pronunciare.
Viene spontaneo chiedersi perché mai il nostro codice di procedura civile ponga così pe­santemente il problema della giurisdizione del giudice. E lo ponga per la giurisdizione, si noti, non per la competenza, prescrivendogli cioè di chiedersi se possa in assoluto giudicare della controversia, non se debba decidere lui, il giudice adito, anziché il collega di cinque, cinquanta, o cinquecento chilometri più in là. Il giudice ordinario non è il vero giudice generale, della cui giurisdizione non si può discutere, perché le altre sono sì giurisdizioni, ma “speciali”, in qualche modo intrinsecamente sottordinate?
Non sembra che il problema sia stato affrontato in dottrina. Salvatore Satta – cui chi scrive deve niente meno che la vita – lo aveva colto; e lo aveva, non si può dire se ri­solto o scansato, proprio in nome del giudice: “l’esperienza dimostra come nella pratica l’indissolubile collegamento tra giurisdizione e ordinamento venga sentito attraverso la denuncia del difetto di giurisdizione, così che questo viene a identificarsi col difetto di azione” (Commentario, I, p. 164). Certo, questa sembra una soluzione del problema. Se ne apre però, e resta irrisolto, un altro: perché, per decidere se c’è o non c’è azione, il giudice deve chiedersi se può o non può giudicare? Se non c’è azione, non dovrebbe respingere la domanda? E così in realtà resta irrisolto il problema di fondo: perché co­stui, e quindi l’istituzione che incarna, deve interrogarsi su stessa, sul proprio potere, se solo per esercitarlo esiste? Sia ben chiaro: il giudice non deve chiedersi e dimostrare a qualcuno se ha vinto il concorso e se, come, quando è stato assegnato ad un certo ufficio giudiziario: deve domandarsi se l’istituzione può giudicare.
Il problema ha radici antiche e soluzioni attuali, fuori del tempo, dagli effetti gravis­simi. Essi non sono devastanti solo perché il numero dei casi in cui queste questioni in concreto si pongono è limitato. Ma il sistema di giustizia ne resta minato.
2. Le radici risalgono agli anni successivi all’unificazione italiana. Nel 1865 era stato approvato un gigantesco corpo di norme che mirava a disciplinare organicamente l’attività delle pubbliche amministrazioni nell’Italia unita. Una di queste recepiva con­quiste liberali in Europa della prima metà del secolo: soppressa una serie di organi amministrativi di giustizia, affidava al giudice ordinario le controversie relative a di­ritti civili e politici del cittadino, anche se erano coinvolti atti e provvedimenti dell’autorità. Le altre questioni sarebbero state decise sulla base di ricorsi lato sensu ge­rarchici, garantendo al cittadino il contraddittorio con l’amministrazione. Era l’all. E alla l. 20 marzo 1865, n. 2248.
Si pose chiaramente il problema di stabilire quali fossero le controversie tra cittadino ed ammini­strazione, relative a diritti civili e politici, rispetto a quelle che, pur riguardando lo stesso tipo di parti, non coinvolgevano “diritti civili e politici”. La questione era di grandissimo rilievo: solo le prime avevano un giudice vero, se così si può dire.
Nei ventisei anni che trascorsero tra il 1865 ed il 1891, vi furono tre fatti che segna­rono il percorso successivo – fino all’ultimo anno del secolo scorso. Il primo, del 1877, fu l’attribuzione della funzione di “giudice dei conflitti” alle sezioni unite della Cassazione di Roma. Esse furono così chiamate a decidere se una data controversia riguardava “diritti civili o politici” – e quindi se poteva avere un giudice – o altri tipi di interessi e di vicende, riservati alla gestione dell’autorità ammini­strativa.

Il secondo fatto accadde nel 1890. Dopo lunghe discussioni, si decise di dare un giu­dice anche alle controversie riservate alla decisione dell’autorità amministrativa – che non riguardavano cioè diritti civili e politici. Presso il Consiglio di Stato, massimo organo consultivo del governo, venne istituita una sezione “per la giustizia amministrativa”, cui venne conferito il potere di annullare i provvedimenti amministrativi viziati da illegittimità o eccesso di potere, che “abbiano per oggetto un interesse di individui o di enti morali giuridici“. Delle controversie tra cittadini ed amministrazioni pubbliche potevano dunque occuparsi due giudici, di­versi quanto si vuole, ma giudici.
Sul ruolo di questi due giudici si deve fermare brevemente l’attenzione. Come la sua natura e le sue funzioni istituzionali volevano, al giudice ordinario era affidato il compito di decidere con pienezza di poteri le controversie tra le pubbliche amministrazioni e i cittadini, aventi ad oggetto “diritti civili o politici” di questi ultimi. Cittadini ed amministrazione venivano posti in un certo senso su un piano di parità: come le obbligazioni dovevano essere adempiute, così veniva risarcita la lesione dei diritti. La legge del 1865 poneva un solo limite ai poteri del giudice ordinario: non poteva modificare, annullare, revocare, il provvedimento da cui la controversia era scaturita o comunque intorno al quale si era sviluppata. Al giudice ammi­nistrativo era viceversa demandato proprio il sindacato sulla legitti­mità degli atti impugnati: poteva quindi annullarli (non modificarli), se li riteneva illegittimi, senza però poter condannare l’amministrazione al risarcimento del danno.
Erano dunque due giudici con funzioni profondamente diverse, mirate a soddisfare bisogni di giustizia altrettanto diversi. Ridotto il discorso ai suoi termini essenziali, il giudice amministrativo poteva soddisfare il bisogno di veder rimosso un atto amministrativo lesivo (la concessione negata o assentita ad un terzo, ad es.); il giudice ordinario garantiva il rispetto dei diritti.
Il terzo accadimento è dell’anno successivo. Nessuna norma di legge si era preoccupata di definire i rapporti tra il giudice ordinario ed il neo-istituito giudice amministrativo. Ma non per questo il problema cessava di esistere. Tanto esisteva, che già nel 1891 il giudice dei conflitti (le sezioni unite della Cassazione di Roma) venne investito della questione se il cittadino potesse scegliere quale giudice adire, in funzione dell’interesse che intendeva far valere: il ri­sarcimento del danno, di fronte al giudice ordinario, o l’annullamento dell’atto lesivo, di fronte al giudice amministrativo.
La Cassazione disse che nessuna scelta era data. Si doveva adire il giudice che l’ordinamento aveva predisposto a tutela della situazione giuridica – diritto soggettivo o inte­resse legittimo – di cui in una data controversia si trattava. Prima di rivolgersi ad un giudice, occorreva dunque stabilire se la situazione giuridica soggettiva entro cui andava collocato l’interesse che si voleva far valere in giudizio andava qualificata come “diritto soggettivo” o “interesse legittimo”. Se ci si era sbagliati … errore fatale!
3. Ne derivarono due conseguenze. La prima è semplice e ben nota. Costretti nel perimetro della giurisdizione amministrativa, gli “interessi di individui e di enti morali giuridici” – gli interessi legittimi – divennero irrisarcibili, perché … il loro giudice poteva sì annullare i provvedimenti dell’amministrazione che li aveva lesi, ma non gli era consentito conoscere di una domanda di risarcimento del danno, quale che ne fosse la natura o l’entità. Questa è stata irremovibile giurisprudenza della Cassazione, fino alla “sentenza del pentimento”, di 109 anni dopo, con cui affermò il principio esattamente opposto: gli interessi legittimi sono risarcibili. È la celeberrima sentenza n. 500/1999, delle sezioni unite.

La seconda conseguenza è più complessa, e, in definitiva, non di puro diritto. La devoluzione di una controversia al giudice ordinario o amministrativo dipendeva, come si è visto, dalla qualificazione dell’interesse sostanziale leso, per il quale si chiedeva tutela, come “diritto soggettivo” o “interesse legittimo”. Sennonché nel mondo del diritto esistono miriadi di leggi, di regolamenti, di provvedimenti di ogni genere e specie, da cui discende un coacervo sterminato di interessi, ora soddisfatti, ora lesi. Non esistono “diritti soggettivi”, esattamente come non esistono “interessi legittimi”. Sono categorie totalmente astratte, entro le quali un certo tipo di metodica giuridica pensò di ridurre l’esperienza giuridica, per fissarne l’essenza. Per inquadrare un interesse sostanziale qualsiasi entro la categoria di “diritto soggettivo” o di “interesse legittimo” è quindi necessario (a) individuare i tratti propri del diritto soggettivo; (b) individuare quelli dell’interesse legittimo; (c) assumere questi tratti a strumento di interpretazione della vita e della realtà; (d) applicarli infine alle vicende concrete per dire se un dato interesse presenta i tratti del diritto soggettivo o dell’interesse legittimo. Come ognun vede questa è un’operazione che reca in sé un margine di arbitrarietà tanto elevato, quanto incontrollabile. Basti dire che nel corso di un secolo si sono succeduti circa dieci diversi criteri per distinguere in concreto un “diritto soggettivo” da un “interesse legittimo”.
Di tutto ciò si parla qui per un’unica ragione: dalla decisione della Cassazione del 1891, che negava qualunque possibilità di scegliere il tipo di giudice cui chiedere la tutela dell’interesse leso dall’amministrazione, è derivato che la Cassazione stessa si è arrogata il potere di dire nell’an, a priori, se un danno recato dall’amministrazione era o non era risarcibile. Vuoi in sede di regolamento preventivo di giurisdizione, vuoi a giudizio di merito concluso, solo la Cassazione poteva dire se l’interesse µ era o non era risarcibile (se era “diritto soggettivo” o – come spesso si sottolineava – non “interesse legittimo”, ma “mero interesse legittimo”).
4. Non rileva qui se questo sistema fosse buono o cattivo, giusto o ingiusto, opportuno o inopportuno. Chi scrive ha già espresso più volte la propria opinione e sarebbe inutile ripetersi. Rileva un altro profilo: e cioè che il sistema era coerente. Tra il 1865 ed il 1890, infatti, la legge aveva dato al cittadino un giudice per la tutela dei suoi diritti nei confronti della pubblica amministrazione ed a questa, ed alle procedure di ricorso interno, affidato la garanzia dei non-diritti. C’erano insomma interessi meritevoli di tutela giudiziaria ed altri che non lo erano. Un giudice dei conflitti era indispensabile per sapere con certezza se e quando un interesse poteva essere portato al giudice, all’unico giudice, e non lasciato all’amministrazione. In altre parole, chiudeva il sistema e ne garantiva la coerenza.
Eadem ratione il sistema continuò ad essere coerente dopo il 1890. Certo vi era stato un cambiamento significativo, con l’entrata in scena di un altro giudice. Ma era un giudice “amministrativo”, giudice della legittimità degli atti e provvedimenti, che oltre al sindacato sulla loro legittimità ed al loro eventuale annullamento non poteva andare, secondo la stessa logica che aveva ispirato il sistema precedente. Il vero giudice insomma restava uno solo. Il giudice dei conflitti garantiva la coerenza del sistema, dicendo chi doveva godere (o accontentarsi) dell’annullamento e chi godere (o accontentarsi) del risarcimento.
5. La sentenza n. 500/1999 delle sezioni unite ha letteralmente spezzato il sistema, per il semplice motivo che ha reso risarcibile il danno recato con gli interessi legittimi. Di questa rottura essa era stata ben consapevole: nel tentativo di mantenere una differenza strutturale tra giudice ordinario e amministrativo, nella lunga parte propositiva con cui si conclude essa afferma che la giurisdizione per il risarcimento del danno sarebbe dovuta spettare al giudice ordinario. Ma quando la legge dell’anno successivo, 21 luglio 2000, n. 205, ha attribuito al giudice amministrativo – e non al giudice ordinario – la competenza per il risarcimento del danno recato con i provvedimenti amministrativi, essa ha anche, ed irreversibilmente, confermato la rottura con il sistema di tutela giurisdizionale avviato nel 1865: la tutela degli “interessi legittimi” comprende il risarcimento del danno ad essi recato.

6. Non tutti sanno in dettaglio che cosa è accaduto dopo. Un cenno è opportuno, per chiarezza di discorso. Nell’ambito di un impegnativo disegno di riordino della giurisdizione amministrativa, la legge del 2000 le aveva devoluto una competenza esclusiva per “blocchi di materie”. Questo significava che, per queste materie si doveva andare dal giudice amministrativo, ignorando la classificazione degli interessi coinvolti come “diritti” o “interessi legittimi”. Era una semplificazione di grandissimo rilievo che si innestava in un filone di evoluzione legislativa, in atto da anni. Essa preludeva inequivocabilmente a passi ulteriori nella stessa direzione, vale a dire ad una concentrazione della tutela giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione in capo al suo giudice naturale, forte di una lunghissima tradizione, ignota al giudice ordinario. Ben quattro anni dopo, per altro, quando il sistema era già a regime – e funzionava benissimo – la Corte costituzionale richiamò brutalmente in vita gli interessi legittimi. Disse che l’attribuzione di blocchi di materie al giudice amministrativo era illegittima costituzionalmente, perché secondo la sua interpretazione dell’art. 103 Cost. un giurisdizione esclusiva, estesa ai diritti, poteva darsi solo se già era data la giurisdizione amministrativa (sent. n. 204/2004). Continuò poi lungo questo percorso, giungendo a prescrivere che, di fronte a meri comportamenti dell’amministrazione si può andare dal giudice amministrativo solo se sono ricollegabili ad atti autoritari. La Cassazione si è immediatamente adeguata. Con una quasi sterminata serie di sentenze rese in sede di regolamento di giurisdizione è andata a stabilire come e quando la stessa domanda di risarcimento del danno deve essere spiegata di fronte al giudice ordinario o amministrativo.
Sì, la stessa domanda di risarcimento del danno.
7. Di tutto ciò si deve dire un’unica cosa. Non ha senso. Il regolamento di giurisdizione aveva un preciso significato quando dirimeva conflitti: quando si doveva dire se Tizio poteva o non poteva adire il giudice, il solo giudice esistente; ed anche poi, quando si doveva dire se si poteva o non si poteva chiedere il risarcimento del danno, se si poteva o non si poteva chiedere l’annullamento di un atto amministrativo.
Oggi il risarcimento si può chiedere ad entrambi i giudici. Addirittura la Cassazione ha fatto cadere la c.d. pregiudizialità amministrativa, cioè la necessità di aver tempestivamente impugnato un provvedimento lesivo per poter chiedere il risarcimento del danno da questo recato. Un’ultima, forse ormai penultima, sentenza dice che questo danno deve essere chiesto di fronte al giudice amministrativo, il quale, per altro, dichiara inammissibili i ricorsi proposti fuori termine (Cass., 23 dicembre 2008, n. 30254).
Il regolamento di giurisdizione non ha dunque più senso. I confini che doveva regolare non esistono più.
8. Uno ne avrebbe in verità, se la Cassazione non si rifiutasse di interpretare il regolamento di giurisdizione in senso restrittivo, appunto come mero strumento di regolazione di confini. Oltre ai Tribunali militari, che parrebbero per altro prossimi a scomparire, nel nostro ordinamento ormai esiste un unico vero giudice speciale, la Corte dei Conti. Nel corso degli anni, essa ha trasformato il proprio giudizio di responsabilità amministrativa, originariamente di vero e proprio risarcimento del danno, in giudizio disciplinare, in cui non sono predeterminate né la condotta sanzionabile, né la sanzione. Del tutto generico è il concetto di “colpa grave”, da cui soltanto può derivare responsabilità; non esistono criteri per la quantificazione del danno.
Ora l’art. art. 103, 2° co. Cost. dispone che la Corte dei conti ha giurisdizione in materia di contabilità pubblica e nelle materie attribuitele dalla legge; l’art. 111, 8° co. che le sentenze della Corte possono essere impugnate solo per motivi di giurisdizione. La giurisdizione in materia di responsabilità amministrativa non è di contabilità pubblica; non ha dunque copertura costituzionale (è infatti attribuita da una legge ordinaria). Non le si applica pertanto il limite di impugnazione per soli motivi di giurisdizione che riguarda solo le sentenze rese in materia di contabilità pubblica. Tanto più non le si deve applicare, merita ricordare, visto il disfavore, fino al divieto di istituzione, con cui la Costituzione tratta i giudici speciali.
Il regolamento di giurisdizione, che sindacasse l’esistenza della “colpa grave” e quindi della giurisdizione della Corte, sarebbe il vero strumento per cominciare a riportare ordine in una giurisdizione che oggi appare priva di sindacato e di limiti.

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Intanto, quali conseguenze? Sembra che un punto emerga, al fondo di questa esperienza. In un periodo in cui vi è estremo bisogno di certezze, una inutile componente di incertezza viene tenuta a tutti i costi in vita.