I presupposti giuridici del confronto competitivo nel mercato nazionale delle scommesse: importanti conferme giurisprudenziali al regime autorizzatorio!

Da alcuni anni in Italia il settore dei giochi e delle scommesse vive una stagione di grande fermento, con una crescita straordinaria e tumultuosa del fatturato complessivo accompagnata da una notevole vivacità imprenditoriale.

Le potenzialità mostrate dal mercato italiano hanno attratto l’attenzione dei principali operatori europei del gaming, inducendolia varcare le soglie dei confini nazionali, per proiettarsi in un confronto competitivo allargato e caratterizzato dall’incontro-scontro tra diversi modelli di business e regolazione.

Questa rapida trasformazione degli scenari di mercato innescata e favorita, anche, dall’avvento e dalla diffusione delle nuove tecnologie, che, in molti casi, hanno consentito di bypassare, con estrema disinvoltura, le molte rigidità di un sistema, troppo spesso, chiuso ed ostile al confronto concorrenziale, ha indotto approcci imprenditoriali differenziati da parte degli operatori esteri nei confronti del sistema italiano.

Per cui, mentre la gran parte di essi ha colto le opportunità offerte, negli anni scorsi, di acquisire regolari titoli abilitativi all’esercizio del gioco, attraverso formali procedure ad evidenza pubblica, altri hanno deciso di ingaggiare una vera e propria “guerra” contro lo Stato italiano, con il dichiarato intento di forzarne e demolirne l’intero sistema concessorio, per spingerlo verso una completa “deregulation” in stile anglosassone.

In questo scenario, profondamente inciso da ripetuti interventi legislativi, che hanno consentito di superare e rimuovere gli ostacoli alla piena armonizzazione della materia con i principi dell’ordinamento comunitario, in ossequio alle sollecitazioni provenienti dalle istituzioni europee, si inseriscono alcune interessanti e recenti pronunce della giustizia amministrativa che forniscono agli operatori del diritto, alle imprese ed alle Istituzioni una chiara interpretazione dei fondamenti e dei presupposti giuridici relativi all’esercizio dell’attività di organizzazione e raccolta delle scommesse.

Con la sentenza n. 6027 del 5 dicembre 2008, il Consiglio di Stato è tornato nuovamente a pronunciarsi sulla dibattuta questione dell’attività di intermediazione svolta dai cd. Centri Trasmissione Dati (Ctd) nel settore delle scommesse sportive.

E’ bene, tuttavia, ricordare che i fatti oggetto dell’accertamento dei giudici amministrativi, si riferiscono, comunque, a situazioni antecedenti la disciplina introdotta con il DL 223 del 4 luglio 2006[1], meglio noto come Decreto Bersani-Visco, che ha radicalmente modificato il sistema italiano di offerta al pubblico dei giochi e delle scommesse.

*****

Entrando nel vivo delle statuizioni della Sesta Sezione del Consiglio di Stato giova rammentare come la controversia decisa dai giudici d’appello sia originata da un decreto di cessazione immediata di qualsiasi attività di intermediazione nel settore delle scommesse emesso dal Questore di Catania nei confronti di un centro trasmissione dati, contrattualmente legato ad un noto operatore britannico. Tale attività, consistente nella raccolta di dati e valuta relativi alle prenotazioni di giocate effettuate dai clienti, nella trasmissione degli stessi alla sede estera e nell’accreditamento agli scommettitori delle somme di loro spettanza in caso di vincita, veniva posta in essere senza che i titolari del centro attendessero il rilascio della necessaria licenza da parte della Questura.

Il Questore di Catania, ritenendo abusivo lo svolgimento della predetta attività disponeva, con effetto immediato, la cessazione di qualsiasi attività di intermediazione relativa alle scommesse.

Avverso tale provvedimento veniva presentato ricorso al Tar Abruzzo, il quale, nel ritenere la normativa interna in materia di scommesse e concorsi pronostici incompatibile con i principi comunitari di libertà e stabilimento, di libera prestazione dei servizi e di non discriminazione, nonché con i canoni di necessità, idoneità, adeguatezza e proporzionalità, con la sentenza n.1012 del 2005 ne disponeva la disapplicazione accogliendo le ragioni della ricorrente.

A giudizio del Tar Abruzzo le limitazioni poste dalla normativa nazionale sarebbero state ispirate prevalentemente dall’esigenza dello Stato di assicurarsi un gettito di entrate fiscali, anziché da ragioni di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica.

Contro tale decisione insorgevano sia il Ministero dell’Interno che la Questura di Catania, proponendo ricorso in appello.

Il bandolo della matassa che la Sesta Sezione ha dovuto riannodare parte, dunque, dall’oggetto del giudizio ovvero dalla legittimità del decreto con il quale il Questore ha ordinato la cessazione dell’attività di intermediazione nel settore delle scommesse: «la questione al centro del thema decidendum consiste, quindi, nello stabilire se un soggetto residente in Italia…possa decidere di intraprendere un’attività di intermediazione nel settore delle scommesse (per conto di un allibratore straniero regolarmente abilitato nel suo Paese), senza preoccuparsi di ottenere l’autorizzazione di pubblica sicurezza prevista dal citato art.88 Tulps[2]».

Ebbene sul punto la posizione del Consiglio di Stato è apparsa netta, priva di incertezze, nell’affermare la piena legittimità dell’ordine impartito dal Questore e la conformità della normativa nazionale al diritto comunitario.

I giudici, richiamando a sostegno delle proprie tesi precedenti pronunce del Collegio (Sez. IV, n.4905/2002 e Sez. VI, n.5898/2005), statuiscono che «anche dopo la sentenza Placanica[3] della Corte di Giustizia, l’attività di raccolta delle scommesse svolta senza il previo rilascio dell’autorizzazione prevista dall’art.88 Tulps debba ritenersi illegittima, anche se la raccolta avviene da parte di Ctd collegati con allibratori stranieri regolarmente abilitati nel loro Paese», e che la stessa sentenza della Corte europea «se, da un lato, ha inciso (sia pure solo in parte) sul sistema concessorio, non ha, invece, travolto (se non marginalmente e di riflesso) il regime autorizzatorio previsto dall’art.88 Tulps»[4].

Ed ancor più significativo è il passaggio successivo in cui il Supremo Consiglio statuisce con solennità che «appurato che il regime di autorizzazione rimane in piedi e che l’autorizzazione svolge una funzione anche autonoma rispetto alla concessione (perché diretta a verificare requisiti di moralità e affidabilità da parte del soggetto che intende svolgere l’attività di intermediazione), non è certamente sostenibile che un soggetto possa pretendere di svolgere l’attività di raccolta delle scommesse senza sottoporsi al vaglio preventivo dell’autorità di pubblica sicurezza (iniziando, come è avvenuto nella specie, a raccogliere scommesse senza nemmeno presentare la richiesta di autorizzazione o senza nemmeno attendere l’esito della richiesta presentata)».

Un vaglio, quello demandato al Questore, dunque, che a giudizio del Consiglio di Stato rimane barriera insuperabile a tutela dell’ordine pubblico e sociale nei confronti di qualunque possibile manifestazione di attività illecita e criminale!

Una funzione di controllo erga omnes che l’ordinamento nazionale demanda alle autorità di pubblica sicurezza e che non può essere ritenuta astrattamente lesiva dei principi comunitari di non discriminazione, necessità e proporzione.

Molto opportunamente, in questa sentenza, i giudici d’appello distinguono ciò che in passato ha arrecato un vulnus ai principi fondamentali dell’ordinamento comunitario, vale a dire le norme che hanno limitato il diritto di impresa, da ciò che diversamente rappresenta legittimo esercizio, da parte di uno Stato membro, di funzioni e competenze sue proprie quali, in primo luogo, assicurare il controllo della sicurezza e dell’ordine pubblico sul territorio nazionale!

La sentenza, d’altro canto, non omette di considerare, neanche, che tra i requisiti soggettivi necessitati per il rilascio dell’autorizzazione vi sia la titolarità di una concessione, “con la conseguenza che il mancato ottenimento della concessione inibisce l’ottenimento dell’autorizzazione di polizia“.

Il noto bookmaker britannico, che nel giudizio è intervenuto ad opponendum, richiamando gli articoli 43 e 49 del Trattato CE, ha rivendicato il diritto di poter svolgere anche in Italia la propria attività in forza dei titoli abilitativi acquisiti nella “madre patria”, invocando, a tal fine, il principio di equivalenza delle normative comunitarie nazionali, elaborato dalla giurisprudenza comunitaria.

Tale principio, in linea generale, è volto a consentire che “l’autorità di controllo dello Stato destinatario dell’attività in questione deve tener conto degli esami e delle verifiche effettuate nello Stato membro di provenienza”, limitando tale controllo al rispetto della normativa dello Stato d’origine, che deve essere considerata equivalente negli altri Paesi membri, salvo che ricorrano particolari motivi di interesse pubblico!

Ed è proprio questo il punto sul quale ha finito per concentrarsi l’attenzione del Consiglio di Stato.

Il costante richiamo alle statuizioni della sentenza della Corte di Giustizia, 6 marzo 2007 (Placanica), a sostegno delle tesi difensive sulla legittimità dell’operato dei cd. Ctd, circa la incompatibilità del regime nazionale con il diritto comunitario, ha trovato nelle valutazioni dei giudici del Consiglio di Stato un importante, quanto ben argomentato, ostacolo.

La sentenza comunitaria, infatti, ad avviso del Supremo Consiglio «…diversamente da quanto da qualcuno sostenuto, non decreta affatto la fine (per incompatibilità comunitaria) della disciplina nazionale sulla raccolta delle scommesse, disciplina caratterizzata…. dall’esistenza di una concessione (rilasciata all’esito di una gara) seguita dal rilascio di una autorizzazione di pubblica sicurezza», perché si aggiunge «la sentenza Placanica riconosce…che le libertà di stabilimento e di prestazione di servizi non sono state compresse a causa della previsione di un regime concessorio in quanto tale. Ciò perché tale regime è sostenuto da ragioni di ordine pubblico e sociale e può essere compatibile con quelle libertà in quanto risulti rispondente ai principi di non discriminazione, di necessità e di proporzione».

D’altro canto, è la stessa Corte di Giustizia a considerare, nella sentenza Placanica, che «un sistema di concessioni può, in tale contesto, costituire un meccanismo efficace che consente di controllare coloro che operano nel settore dei giochi di azzardo allo scopo di prevenire l’esercizio di queste attività per fini criminali o fraudolenti[5]». Secondo i giudici di Lussemburgo la contrarietà della normativa italiana ai principi comunitari va ravvisata non nel regime concessorio in quanto tale, bensì nelle modalità con cui tale regime è stato disciplinato ed attuato.

Dunque, la violazione del diritto europeo va ricondotta e limitata a quelle disposizioni di legge che hanno previsto un limitato numero di concessioni; che hanno introdotto limiti ingiustificati alla partecipazione alla gara per l’aggiudicazione delle concessioni, quali l’esclusione delle società quotate con azioni anonime dal bando di gara del 1999; che hanno conservato il regime di monopolio in favore dei concessionari pubblici, soprattutto prorogando le concessioni già attribuite, e non all’intero sistema nazionale.

Il tentativo di contestare in toto la legittimità dell’ordinamento nazionale dei giochi e delle scommesse ha trovato, così, nella giurisprudenza interna, ed anche in quella comunitaria, una decisa quanto netta opposizione, pur riconoscendo che «limiti ingiustificati sono esistenti nei confronti delle società quotate[6] che hanno sede nei Paesi membri e che non hanno potuto partecipare alle gare per l’attribuzione delle licenze sebbene fossero in possesso delle necessarie forme di autorizzazione che il Paese ove sono stabilite richiede per la gestione organizzata di scommesse in ambito nazionale ed europeo» e che «limiti ingiustificati potrebbero esistere nei confronti delle persone operanti in Italia che sono escluse dal rilascio delle autorizzazioni….per il solo fatto che la richiesta di autorizzazione sia finalizzata all’attività di raccolta delle scommesse per conto delle società quotate e prive di concessione».

Ciò detto, è fuor di dubbio per il Consiglio di Stato che il privato, al quale sia stata negata l’autorizzazione ad esercitare attività di scommesse, non «possa decidere di prescindere totalmente dal titolo abilitativo ed iniziare l’attività sulla base di una mera comunicazione all’autorità di pubblica sicurezza» perché «una simile conclusione finirebbe per cancellare totalmente il regime autorizzatorio, andando ben al di là delle indicazioni provenienti dalla stessa Corte di giustizia».

Per i giudici della Sesta Sezione, in conclusione, «pretendere… di svolgere l’attività di intermediazione nel settore delle scommesse senza sottoporsi al preventivo vaglio dell’autorità di polizia, significa, in definitiva, eludere totalmente quelle cautele di ordine pubblico sottese al regime autorizzatorio che sono pienamente compatibili con i principi comunitari».

La sentenza ribadisce, pertanto, la piena fondatezza del regime autorizzatorio, riconoscendogli un ruolo cardine nel sistema nazionale delle scommesse e con ciò rifuggendo le suggestioni, da taluni avanzate, circa la necessità di un suo inevitabile travolgimento per conflitto con i fondamentali principi del Trattato UE.

Ebbene, se ci è consentito, la pronuncia in commento ci sembra frutto di una elaborazione giurisprudenziale più avanzata, nella quale i giudici del Supremo Consiglio hanno affrontato le tematiche legate al diritto nazionale dei giochi e delle scommesse scandagliando la ratio delle singole norme, senza limitarsi ad un raffronto superficiale con il diritto comunitario unicamente in funzione dell’accertamento del rispetto dei principi di libera concorrenza, libera prestazione dei servizi e libertà di stabilimento.

Insomma, un giudizio nel quale i giudici affrontano il thema decidendum della controversia al riparo dal totem abbagliante della tutela della libera concorrenza, che tutto dovrebbe travolgere, anche le più elementari forme di controllo imposte dall’ordinamento a tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico[7], principi, va ricordato, che trovano anch’essi pieno riconoscimento nel diritto comunitario, come sancito agli artt. 46 e 55 del Trattato.

D’altronde la stessa Corte di Giustizia ha in più occasioni chiarito che la normativa comunitaria va interpretata nel senso che le libertà di stabilimento e di prestazione dei servizi (artt. 43 e 49 Trattato CE) non costituiscono valori assoluti ed inderogabili, ma vanno adeguatamente bilanciati con altri valori di analogo rango e di pari dignità, riconducibili proprio alla sicurezza ed all’ordine pubblico, che ben possono, pertanto, giustificare restrizioni ai predetti principi di libero stabilimento e libera prestazione dei servizi.

*******

Sulla stessa linea interpretativa, in precedenza, era intervenuta anche la pronuncia del Tar L’Aquila del 4 aprile 2008, n.502, relativa ad una controversia di analogo tenore tra un centro trasmissione dati, operante per conto di un noto bookmaker britannico, e la Questura di Piacenza, per il diniego di autorizzazione ed il divieto di prosecuzione dell’attività di intermediazione nel settore delle scommesse.

Sorprendentemente i giudici abruzzesi, che fino a quel momento avevano recepito le istanze provenienti da operatori privi dei necessari titoli abilitativi all’esercizio delle attività di raccolta delle scommesse, mutavano radicalmente il proprio orientamento confermando la piena legittimità dell’operato del Questore, in ordine al diniego di autorizzazione ed al divieto di svolgimento della predetta attività di intermediazione.

Nello specifico, il Tar Abruzzo, dopo aver compiuto una approfondita ed accurata ricognizione sulla compatibilità della normativa nazionale di settore con il diritto comunitario, anche in ossequio alle interpretazioni fornite dalla Corte di Giustizia, ribadiva l’essenza dell’autorizzazione quale elemento cardine del medesimo sistema concessorio.

Per i giudici amministrativi «nessun rilievo ha la circostanza che il ricorrente agisca quale intermediario della …, primaria società inglese nel campo delle scommesse, che non è parte di questo giudizio né dello specifico rapporto procedimentale con l’Amministrazione dell’Interno che ha opposto il diniego; e in nessun caso …il ricorrente, in forza di un vincolo contrattuale che ha forza di legge unicamente inter partes potrebbe mutuare un eventuale titolo autorizzatorio ipotizzabile in capo alla … ». Sottolineando, altresì, che il bookmaker «..., giova aggiungere, non ha inteso avvalersi del diritto di stabilimento in Italia per lo svolgimento dell’attività e non può pertanto, per interposta persona, in questa sede, lamentarne la lesione».

Inoltre, la sentenza, richiamando la pronuncia n.334/07 del Consiglio di Stato, ricordava come l’interesse del ricorrente, che intende svolgere attività di intermediazione per conto ed in nome di società estere, è privo di tutela, in quanto la legislazione italiana relega il gioco e la scommessa “a livello di obbligazione naturale, privi di tutela giuridica in caso di mancato adempimento dell’obbligazione da parte del promittente“. L’ordinamento riconosce rilevanza giuridica unicamente a quell’attività di intermediazione “svolta in nome e per conto di un soggetto concessionario autorizzato“, infatti, «la riserva allo Stato di tale tipo di attività fa sì che l’unica deroga ammessa a tale principio civilistico riguarda la possibilità che l’attività venga svolta da un soggetto munito di concessione o di autorizzazione rilasciate dalle prescritte Autorità nonché …da un soggetto incaricato dal concessionario o dal titolare dell’autorizzazione in forza della stessa concessione o autorizzazione».

A margine, appare interessante notare il passaggio della sentenza in cui si osserva «..che in alcun modo il ricorrente (…, a quanto risulta dagli atti) ha agito avverso l’eventuale rinnovo delle concessioni rilasciate all’esito dei bandi di gara del 1999…facendo valere la sostanziale esclusione dal mercato di soggetti indebitamente non legittimati…perché costituiti in forma di società di capitali …», pertanto, secondo i giudici è fuori di dubbio «… che non può sopperirsi alla mancanza del titolo richiesto dalla legge assumendo la mera illegittimità del complessivo sistema senza far valere nelle sedi adeguate tale assunta illegittimità instando per la rimozione degli atti eventualmente ostativi; né in mancanza di tale attività può farsi a meno del titolo rendendosi legale l’attività che ne sia sprovvista».

***********

Giova rammentare che entrambe le pronunce intervengono su controversie sorte in un contesto normativo profondamente diverso da quello attuale, ampiamente innovato dalle disposizioni contenute all’art.38 del DL 223 del 4 luglio 2006.

Il nuovo assetto legislativo ha consentito, in ottemperanza alle richieste di fonte comunitaria, a tutti gli operatori nazionali ed internazionali interessati, in precedenza esclusi, di acquisire, per il tramite di procedure concorsuali, concessioni per l’esercizio dei giochi e delle scommesse, eliminando, in questo modo, qualsiasi ostacolo normativo ed amministrativo all’ingresso di soggetti comunitari nel mercato nazionale[8].

Pertanto, le nuove disposizioni, che hanno prodotto una evidente apertura del mercato nazionale dei giochi e delle scommesse, stimolando e favorendo la concorrenza, dovrebbero contribuire ad escludere il riproporsi di situazioni di conflitto come quelle oggetto delle controversie descritte e, soprattutto, dovrebbero eliminare ogni dubbio residuo in ordine alla illiceità delle attività poste in essere da operatori privi dei necessari titoli abilitativi (concessioni ed autorizzazioni).

Quei bookmakers, che scientemente hanno evitato di prendere parte alle procedure concorsuali per l’aggiudicazione delle nuove concessioni, preferendo contestare in toto la legittimità del sistema giuridico, hanno, finito, così, per porsi al di fuori del perimetro del diritto nazionale e comunitario, scegliendo di operare contra ius e con ciò violando le più elementari norme di diritto, ivi incluse quelle a tutela della libera concorrenza tra imprese.

Con le due sentenze in commento appare, dunque, consolidarsi un orientamento giurisprudenziale forte che, nel riconoscere il valore imprescindibile dei titoli legali abilitativi, si oppone ai tentativi di elusione della normativa nazionale e comunitaria.

In chiusura notiamo come la Sesta Sezione del Consiglio di Stato non abbia perso l’occasione per “bacchettare” alcune strumentali letture ed interpretazioni fornite alle ultime pronunce della Corte di Lussemburgo, riaffermando in questo modo la piena compatibilità del modello italiano con l’ordinamento comunitario, proprio sulla base delle statuizioni dei giudici europei.

Materiali collegati:

Note

1.  Si veda art. 38, DL 4 luglio 2006, n.223, convertito nella L. 4 agosto 2006, n.248.

2.  Art. 88 RD 18 giugno 1931, n.773: “La licenza per l’esercizio delle scommesse può essere concessa esclusivamente a soggetti concessionari o autorizzati da parte di Ministeri o altri enti ai quali la legge riserva la facoltà di organizzazione e gestione delle scommesse, nonché a soggetti incaricati dal concessionario o dal titolare di autorizzazione in forza della stessa concessione o autorizzazione“.

3.  Nel cd. caso Placanica la Corte di Giustizia ha ritenuto la disciplina nazionale relativa all’attività di raccolta delle scommesse incompatibile sotto taluni profili con il diritto comunitario.

4.  In sede comunitaria la materia dei giochi e delle scommesse è stata esclusa dall’ambito di regolazione della cd. Direttiva Servizi, lasciandola sotto l’ambito di competenza esclusiva di ciascun singolo Stato membro. Pertanto, la scelta circa il modello di regolamentazione da adottare, concessorio o autorizzatorio, compete unicamente ai Governi nazionali, ai quali spetta anche la scelta degli strumenti normativi idonei al conseguimento degli obiettivi prefissati.

5.  La Corte di Giustizia, già con la sentenza, 6 novembre 2003, Gambelli ed altri, aveva affermato che costituiscono “motivi giustificati” di restrizione delle libertà tanto “la tutela del consumatore”, quanto “la prevenzione della frode e dell’incitazione dei cittadini ad una spesa eccessiva collegata al gioco” e “la necessità di prevenire turbative all’ordine sociale”. Si ricorda che l’intervento dei giudici comunitari traeva origine dalla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tribunale penale di Ascoli Piceno, in ordine al procedimento a carico del Sig. Gambelli ed altri, per violazione dell’art.4 della L.401/1989.

6.  L’art.22, comma 11 legge 27 dicembre 2002, n.289 (finanziaria 2003), ha rimosso le limitazioni poste dalla previgente disciplina, consentendo a qualsiasi persona giuridica costituita in forma di società di capitali di partecipare alle procedure selettive pubbliche per l’affidamento delle concessioni, senza ostacoli in ordine alla forma soggettiva.

7.  Materia che trova tutela nella Carta Costituzionale, art.117, comma 2, lett. h).

8.  Per effetto delle procedure di gara, indette ai sensi dell’art.38, DL 223/06, sono state aggiudicate 170 nuove concessioni, per un totale di circa 16 mila diritti, tra ippici e sportivi, distribuiti nei cd. negozi e corner.