Crisi e istituzioni. Una “nuova” interpretazione della Grande Depressione
In Italia, l’esperienza storica fu diversa, come sappiamo, con caratteristiche in parte dettate dalla forma dittatoriale dello Stato; ma vi ritroviamo, in forma ancor più accentuata, molte grandi linee di intervento pubblico. Del resto in altri paesi europei, anche sotto l’influenza, o la minaccia, della pianificazione sovietica, la via intrapresa fu quella di un significativo intervento dello Stato nella allocazione delle risorse e nella regolazione di istituzioni e mercati. Quanto all’Italia, si potrebbe dire, tornando a quanto sopra detto sugli aspetti politico-ideologici e su quelli di efficacia economica degli interventi, che nel contesto del nostro paese i secondi prevalsero, in una quasi completa assenza di alternative. Nel difetto di una forte struttura imprenditoriale – il “capitalismo senza capitalisti” – larga parte dell’impianto normativo-istituzionale interbellico rimase a lungo. La nostra RFC (l’IRI e l’impresa pubblica), il nostro Glass-Steagall (la legge bancaria del ’36), il nostro welfare State (l’INPS e gli enti del parastato), la cultura della protezione e del “cartello” che appare limitare l’efficacia dell’azione antitrust, sono componenti di una struttura economica mai del tutto scomparsi dal dibattito nel nostro paese. Nelle presenti circostanze, non è difficile ipotizzare una intensificazione di quel dibattito, e l’esperienza di molti anni addietro può fornire interessanti spunti di giudizio.