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1929 e 2009: due crisi commensurabili?

di - 6 Febbraio 2009
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Intercorrono due secoli fra il caso di Londra del 1793 e quello di Wall Street del 1987, ma l’intervento esterno fu in entrambe le occasioni risolutivo. Nel 1793 il panico si diffuse nella City a seguito del crack di banche operanti fuori Londra. La domanda di biglietti della Bank of England crebbe a dismisura, per ragioni precauzionali; la stretta si fece rapidamente durissima. Ma la catena dei dissesti bancari venne spezzata e non si estese al mondo della produzione. Bastò l’annuncio del Parlamento di porre a disposizione dei mercanti solvibili titoli dello Scacchiere, a breve e facilmente liquidabili: moneta con cedola. Nell’ottobre del 1987 il crollo da primato storico dei corsi azionari a Wall Street – peggiore che nell’ottobre del 1929 – venne bloccato dalla pronta correzione di segno della politica monetaria americana, attuata da Greenspan. L’immissione di liquidità evitò che l’attività produttiva venisse intaccata.
Altri episodi di tensione finanziaria rientrata per accidente o per intervento esterno si sono avuti in Inghilterra nel 1797, 1810, 1825; in Francia nel 1818; negli Stati Uniti e in Europa nel 1857; di nuovo in Inghilterra nel 1866 e nel 1890; in Italia nel 1907, nonostante una caduta di borsa dell’80 per cento tra quell’anno e le cosiddette “radiose giornate” del maggio 1915.
Per non riandare tanto indietro, dopo il 1987 sono stati contenuti i danni per l’economia internazionale derivanti dalle crisi finanziarie asiatiche, latino-americane, dell’Est europeo, dello SME, dello LTCM. Anche in questi casi è stato prezioso l’apporto del Federal Reserve di Alan Greenspan.
Al contrario, allorché una forte contrazione produttiva vi è stata – specie se unita, come nel 1929, a deflazione dei prezzi – essa non ha mancato di interagire con una crisi finanziaria. La crisi detta del “1929” fu la più pesante, per entità e per durata, anche nella dimensione finanziaria. La si può quantificare con la sommatoria delle perdite bancarie scalate per il PIL di un anno rappresentativo e con la flessione dei corsi azionari deflazionati per i prezzi al consumo. Tra il 1921 e il 1933 nei due paesi sino ad allora a più alta instabilità finanziaria fra quelli oggi sviluppati – l’Italia e gli Stati Uniti – le perdite bancarie – accertate anni dopo da contabili e tribunali – furono pari al 5 per cento del PIL negli Stati Uniti e all’8 per cento in Italia; le borse crollarono del 50 per cento in Italia nel 1925-1932, come negli Stati Uniti nel 1929-33 (-85 per cento i valori nominali, -30 per cento i prezzi al consumo). In Italia si dovette ricorrere alla eterodossa soluzione dell’IRI, che evitò il panico bancario sperimentato negli USA e che oggi, mutatis mutandis, torna a suscitare interesse, anche fuori d’Italia.
Per singoli paesi piccoli o emergenti il quadro è in realtà altamente variegato, con punte anche molto più gravi rispetto ai due casi appena evocati. Già l’Austria nel 1931 accusò perdite bancarie legate al Kredit-anstalt – grossa banca in piccola economia – pari al 9 per cento del PIL. Nell’ultimo quarto del Novecento in Italia – merito di Via Nazionale – il costo cumulato delle crisi bancarie non ha superato l’1,5 per cento del PIL di un anno rappresentativo. Ma fra i paesi industriali che in quei venticinque anni hanno sperimentato crisi la cifra italiana è inferiore non solo ai casi limite della Spagna (17 per cento del PIL), del Giappone (12 per cento), della Finlandia (10 per cento), ma anche a quelli – compresi fra il 2 e il 5 per cento del PIL – di Svezia, Norvegia, Stati Uniti, Francia, Australia. Nello stesso periodo un centinaio di economie in via di sviluppo hanno sperimentato crisi finanziarie. In questi paesi i costi della crisi non sono stati inferiori a numerosi punti di PIL, con un valore modale di 15 punti. I costi sono giunti a commisurarsi a un terzo del PIL in Tailandia e Turchia, alla metà o poco meno nei casi estremi dell’Argentina e del Cile nei primi anni Ottanta.

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