Fiducia e mercati finanziari

1.    Ne L’isola delle monete di pietra, del 1910, W. H. Furness racconta dell’isola Uap:

«Il mezzo di scambio di cui ci si serve nell’isola è chiamato fei ed è costituito da grosse, compatte e resistenti ruote di pietra…
Un’interessante caratteristica di questa moneta di pietra è che il suo valore non dipende necessariamente dal suo possesso. Se un compratore conclude un affare per il prezzo complessivo di un fei e quest’ultimo è troppo pesante per essere trasportato, l’acquirente non ha difficoltà ad accettare un semplice riconoscimento di possesso della pietra ed essa può rimanere indisturbata nell’abitazione del precedente possessore, senza neppure un segno che ne indichi il cambiamento di proprietà. Il mio vecchio e fedele amico Fatumak raccontava che nel villaggio vicino viveva una famiglia la cui ricchezza era indiscussa e riconosciuta da tutti. Tuttavia nessuno, neppure all’interno della famiglia, aveva mai visto o toccato questa ricchezza; essa era rappresentata da un enorme fei, la cui dimensione era conosciuta solo per tradizione poiché da due o tre generazioni – e quindi anche in quel momento – giaceva in fondo al mare! …
Nell’isola Uap non ci sono carri muniti di ruote e, di conseguenza, mancano le strade carrabili; esistono però da sempre sentieri ben tracciati che mettono in comunicazione tra loro i vari villaggi. Quando il governo tedesco entrò in possesso delle isole Caroline, dopo averle acquistate dalla Spagna nel 1898, molti di questi importanti sentieri erano in pessime condizioni e i capi dei numerosi insediamenti ricevettero l’ordine di farli risistemare nel miglior modo possibile. Tuttavia i blocchi di coralli disposti in modo irregolare lungo i sentieri erano più che sufficienti per gli indigeni che si muovevano a piedi nudi e così l’ordine rimase inascoltato. Alla fine si decise che i capi dei villaggi dovevano essere puniti con una multa per disobbedienza. Ma che tipo di multa poteva essere imposta? … Dopo molte esitazioni si scelse una singolare sanzione: si inviò un uomo in ognuno dei villaggi riluttanti ad obbedire, col compito di tracciare con la vernice una croce nera su alcuni dei più preziosi fei, per indicare che quelle pietre diventavano proprietà del governo. La trovata, come per incanto, diede subito i suoi frutti; gli abitanti dei villaggi, così gravemente colpiti nei loro averi, si scossero e si misero a risistemare i sentieri più battuti da un capo all’altro dell’isola… Il governo mandò allora i suoi addetti a cancellare tutte le croci nere. In men che non si dica la multa era stata pagata, le famiglie indigene, soddisfatte, erano tornate in possesso del loro capitale e si sentivano immensamente ricche» (pp. 93, 96-100).
[1]

Questo breve racconto mi è sempre parso pieno di suggestioni, non solo poetiche, ma anche giuridiche; o forse poetiche proprio perché evocative di tanta parte del nostro convivere. Certo, ci si può limitare a sintetizzare il messaggio che se ne ricava con la banale constatazione che tutto il sistema di scambio monetario è convenzione. La convenzionalità, tuttavia, non può reggersi se non sulla fiducia. Fiducia che non è solo speculare alla reputazione, nei rapporti reciproci ed individuali, ma che richiede affidamento nella collettività, in un giuoco che non si può non giocare. Affidamento anche e soprattutto ove il singolo non sia in grado di capire esattamente come funzionano le regole del giuoco, né esattamente chi le determini, ed è costretto a fidarsi di entità astratte come «il mercato».

2.     La finanziarizzazione dei sistemi economici non è certo fenomeno recente. Se il mercato, metafora di luoghi (economici, giuridici, etici) concettualmente non neutri, si basa sull’assunto che il lavoro va diviso per corpi specializzati, spetta ai sistemi finanziari occuparsi dell’allocazione delle risorse e “socializzare” il capitale ed il suo rischio. Essi sono quindi elemento intrinseco dell’economia capitalistica, che, di stagione in stagione, per così dire, muta veste, struttura, carattere. Basti pensare a quello che erano nell’Ottocento – epoca non solo storicamente a noi più prossima, ma in cui i fenomeni di apertura dei mercati e della “globalizzazione” si manifestarono in modi addirittura più accentuati di quelli attuali – rispetto ad oggi. L’elemento di maggior distinzione è probabilmente la loro fortissima spersonalizzazione, dovuta all’origine del risparmio, oggi capillarmente diffuso ed immesso sui mercati finanziari da investitori finali di piccole o piccolissime dimensioni.

In parallelo, si deve registrare una marcata differenza nell’intermediazione: se nel corso dell’Ottocento le banche erano i principali gestori del risparmio, che lo investivano in progetti di cui erano in grado di valutare direttamente la qualità (redditività, sicurezza), nella scelta dell’investimento gli investitori istituzionali seguono oggi parametri di diversificazione del rischio, teorie sulla probabilità degli eventi, l’andamento del mercato attraverso indici sintetici, secondo approcci metodologici in cui il prezzo diviene la informazione determinante.

Se fiducia quindi poteva un tempo significare quasi condivisione di responsabilità nell’investimento, anche quando si trattasse di solo capitale finanziario, e l’affidamento era generato dalla reputazione individuale e dall’esperienza maturata sul campo di chi gestiva il risparmio, oggi parametri e modelli matematici di cui si assume a priori una sorta di scientificità assoluta garantiscono l’affidabilità dell’investimento, sostituendosi all’esperienza e alla reputazione individuali. In questo contesto, la fiducia si trasferisce sul prezzo-informazione, riducendo a valori e livelli indefinibili la componente di affidamento individuale o reciproco, sostituito con quello nella scienza collettiva, nel valore del suo linguaggio per indici, nella capacità di predizione del futuro. Sull’equivoco, in qualche modo, che il futuro non sia costruito, ma predetto.

Ne deriva una conseguenza di grandissimo rilievo. Se questa è la premessa, la chiave della fiducia risiede in massima parte nella trasparenza: più il mercato è trasparente, ovvero più gli indici sono conosciuti (anche se non interpretati) e le informazioni rese “pubbliche”, cioè potenzialmente acquisibili da chiunque (anche appunto se incapace di decifrarle o di usarle), più si creano le premesse per la fiducia.

3. E’ ben noto come il diritto abbia risposto a queste forme di “socializzazione” ed alle mutazioni nel controllo del capitale a livello societario. Specialmente la dottrina americana ha studiato il fenomeno delle corporations, società quotate ove il capitale azionario è talmente diffuso nel mercato da non poter esprimere un nucleo “proprietario” che si assuma la responsabilità della gestione dell’impresa. Non si può non sottolineare, sia pur quasi incidentalmente, come queste imprese vengano definite “public companies”, con un vero mutamento di linguaggio, nel senso che il concetto di “pubblico” viene svuotato di qualsivoglia dimensione effettivamente collettiva o comune. Il modo per leggere giuridicamente il fenomeno è infatti quello di considerare che la dirigenza dell’impresa sia vincolata da un rapporto di agenzia verso gli azionisti, così “privatizzando” la responsabilità della gestione in un rapporto di principal-agent, che imporrebbe al manager di massimizzare il valore delle azioni: delle azioni sul mercato, non dell’azienda, poiché l’incremento del valore delle azioni va a beneficio dell’azionista “diffuso”, interessato alla remunerazione dell’investimento nel breve periodo. Come è evidente, tutto ciò implica una serie di modifiche, se non addirittura stravolgimenti sotto vari aspetti, incluso in qualche misura il ruolo dei bilanci, utilizzati per segnalare al mercato lo stato dell’impresa come bene finanziario.

D’altra parte, davanti alla constatazione che il rapporto principal-agent contiene tensioni dovute a intrinseci conflitti di interesse, anche il rapporto “privatistico” tra principal ed agent viene sottoposto al controllo “pubblico” del «mercato». I bilanci-segnalazione vengono certificati, da soggetti terzi e quindi supposti neutri. Tali giudizi qualitativi si trasformano poi in rating quantitativi che ne permettono la comparazione con altri beni finanziari. La fiducia che sorregge queste valutazioni non dipende quindi necessariamente (o comunque non solo) dalla reputazione della singola società di revisione, ma appunto dalla scientificità dei parametri utilizzati nel valutare l’impresa. Che esistano poi dei conflitti di interesse anche relativamente a queste società di revisione o rating, è informazione ora diffusa, ma principalmente perché l’ingordigia ha prevalso e drammatiche truffe sono così emerse alla cronaca. Dell’endemicità di tali conflitti è invece stato scritto,[2] a nuova conferma dell’insufficienza, o addirittura della mistificazione della lettura giuridica.

Parimenti interessante è accostare a queste teorie giuridiche quelle che hanno ricostruito i rapporti tra risparmiatori ed intermediari. Se la moneta bancaria è per definizione «fiduciaria», i rapporti di intermediazione finanziaria sono sovente costituiti come «rapporti fiduciari».

Sennonché il trust, da cui trae origine questo tipo di rapporto fiduciario (che si fonda sulla traduzione dell’espressione inglese nel suo senso generico, appunto come fiducia) è giuridicamente istituto originato in equity, che esprime la separazione della proprietà tra titolarità e godimento. In esso il rapporto tra il trustee ed il beneficiary va ben oltre quello di agenzia, né indica semplicemente patrimoni vincolati: si tratta di una condivisione di responsabilità nell’utilizzo del bene, rappresentata forse nel modo migliore e più incisivo dall’espressione «dual ownership». La “ownership” di qualcosa, fuori dal suo stretto significato giuridico di proprietà, significa molto di più di semplice possesso ed utilizzo di qualcosa, bensì paternità, responsabilità, impegno personale. E non è un caso che i diritti del beneficiary siano appunto sorti dalle corti in equity quale limite ai diritti at law del trustee che riceveva la titolarità del bene: l’essenza dell’istituto si fonda proprio sull’insita natura fiduciaria con cui avveniva il trasferimento, solo obbligo morale finché le corti non iniziarono a riconoscerlo quale obbligo giuridico. La fiducia risiede proprio nel fare affidamento sul vincolo anche se non imposto at law.

Eppure anche da queste premesse si è in parte allontanata la teoria giuridica attenta al mercato. E’ interessante, tra i possibili riferimenti, l’enorme corpus di dottrina che ancora oggi continua ad occuparsi della notissima sentenza Meinhard v. Salmon,[3] del lontano 1928, ove il giudice Cardozo espresse una definizione di obblighi fiduciari che si vuole distinguere dai rapporti che intercorrono tra investitori ed intermediari[4] o riassorbire nell’analisi economica del diritto[5]: «Molte forme di condotta che sono comunemente ammissibili e permissibili tra coloro che lavorano a stretto contatto, sono invece vietate tra coloro che sono uniti da un legame fiduciario. Un fiduciario è tenuto a qualcosa di più esigente della morale del mercato. Non solo l’onestà, ma il puntiglio dell’onore deve essere lo standard di condotta. … Solo in questo modo possiamo tenere il livello di condotta tra gli individui a un livello più alto rispetto al mero seguire la corrente della folla».[6]

La principale ragione del rifiuto sta nella convinzione che una ricostruzione su base fiduciaria che segua le logiche di Cardozo sia possibile solo in presenza di un rapporto individuale e personale. In un contesto spersonalizzato, la fiducia nell’integrità degli attori e conseguentemente nell’intero meccanismo va invece ricercata in paradigmi generali, regolazione e supervisione attraverso indici e standard comuni, codici di condotta che “internalizzino” l’obbligo altrimenti imposto, trasparenza che permetta una «informazione consapevole». Nella sostanza, la fiducia diviene funzionale all’efficienza del mercato: se l’investitore perde troppo tempo a verificare l’informazione perché non si fida, il mercato rallenta il suo corso.

A leggere i documenti che sono stati prodotti allo scoppio della crisi nell’autunno del 2008, questa pare infatti essere la linea di pensiero. La Dichiarazione del 14-15 novembre 2008 dei Capi di Stato e di Governo del G-20 stabilisce un’agenda di misure comuni da intraprendere per garantire la stabilità dei mercati, che includono il rafforzamento degli standard internazionali di regolazione, il trasferimento dei contenuti di tali standard nei meccanismi di auto-disciplina del mercato (market discipline), il miglioramento della trasparenza (disclosure) e il rafforzamento degli schemi societari di riduzione del rischio, nonché delle normative a tutela del consumatore e della protezione del mercato da comportamenti abusivi. D’altro canto, già a maggio 2008 lo IOSCO aveva pubblicato il Rapporto The Role of Credit Rating Agencies in Structured Financial Markets, ove aveva proposto misure per porre rimedio a valutazioni da parte di agenzie di rating operate su base di informazioni mal interpretate o su modelli interpretativi reputati obsoleti, in modo che nuovi modelli di elaborazione dei dati e maggiori dati possano finalmente garantire la affidabilità dei risultati offerti ai risparmiatori.

E’ complesso discutere della questione del significato della fiducia in un contesto in cui i rapporti sono stati fortemente spersonalizzati ed ove espressioni che avevano uno spazio semantico molto lontano dall’apparato concettuale del razionalismo economico sono state riassorbite in tale strumentario, acquisendo nuovi significati tanto distanti da quelli originari. Ed è altrettanto vero che la semplice traslazione della elaborazione concettuale della fiducia sorta per i rapporti interindividuali alle situazioni “tra estranei”[7] finisce a sua volta per mistificare i risultati dell’analisi, riportando quasi necessariamente al “privato” ciò che è (per lo meno, anche) “pubblico”.

Ho invece voluto indugiare sulla novella dell’isola Uap proprio per partire dall’aspetto “pubblico” di affidamento che sostanzia la fiducia in termini di diritto, quale presupposto della stessa condivisione dello spazio comune, delle sue regole e dei suoi obiettivi, affidamento che aumenta il suo rilievo quando il singolo non è in grado di valutare esattamente le regole del gioco, né di cogliere quali siano i fili principali della matassa della complessità che in realtà forma il «mercato». Dovremmo quindi forse dedicare più attenzione non tanto alla fiducia, quasi messianica, nella trasparenza e nella rappresentatività dell’informazione sintetica, quanto piuttosto a quella nel valore comune del funzionamento del mercato. Molto si comincia a dire di mercato e democrazia. Molto meno di mercato e fiducia.[8]

Note

1.  Il brano, di cui ho riportato solo alcuni paragrafi, funge da introduzione a Milton Friedman, Manovre Monetarie, Garzanti 1992, p. 15.

2.  Noto a tutti, tra gli altri, lo scritto di Guido Rossi, Il conflitto epidemico, Adelphi 2003.

3.  Corte d’Appello di New York, 31 dicembre 1928, 249 N.Y. 458.

4.  Tra i più recenti, cfr. P. F. Hanrahan, Fiduciary Duty and the Market: Private Law and the Public Good, 2008

5.  Significativo anche il solo titolo dello scritto di N. L. Georgakopoulos, Meinhard v. Salmon and the Economics of Honor, 1998.

6.  In realtà il testo originale è semanticamente molto più ricco: «Many forms of conduct permissible in a workaday world for those acting at arm’s length, are forbidden to those bound by fiduciary ties. A trustee is held to something stricter than the morals of the marketplace. Not honesty alone, but the punctilio of an honor the most sensitive, is then the standard of behaviour. … Only thus has the level of conduct for fiduciaries been kept at a level higher than that trodden by the crowd» (464)

7.  Interessanti i risultati dello studio di Pellagra, Isoni e Sitzia, I Trust You, Not What They Say About You. An Experimental Investigation of the Effect of Direct and Indirect Reputation, Working Paper Università di Cagliari, 2008.

8.  Inevitabile il riferimento a Stiglitz, tra cui: In un mondo imperfetto. Mercato e democrazia nell’era della globalizzazione, Donzelli, 2001.