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Una nuova economia per il diritto. Alcune riflessioni sulla legge

di - 5 Dicembre 2008
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Il nocciolo della questione è dunque che se le parti dissentono sull’esecuzione del contratto e su quale debba essere il loro assetto ordinato di rapporti – il loro diritto comune –, esse a priori tacitamente concordano sul fatto che tale realizzazione non passi attraverso la guerra, ma la mediazione di un terzo, il “giudice”; vogliono che l’ordine dei loro rapporti nasca non solo dall’esecuzione che ciascuna darà alle proprie obbligazioni, ma, eventualmente, anche da quanto deciderà chi dovesse essere chiamato ad “interpretare” il contratto e dire quali sono le sue “vere” regole. Come è palese, questo è ben altro che puro diritto civile; è qualche cosa che investe la struttura stessa della società e l’ appartenere ad essa. È tanto forte nella sua vis atractiva da prevalere sulle disfunzioni di cui tutti, ogni giorno parlano, in tutte le sedi.

Se poi si considera l’arbitrato, il discorso è ancor più evidente. Nonostante una certa diffidenza che l’istituto si è guadagnato negli ultimi anni, all’arbitrato si continua a ricorre con una pattuizione ad hoc quando si condivide l’idea che per definire l’ordine in concreto sia necessaria una valutazione dei rapporti resa da persone di fiducia delle parti. Qui è chiarissimo che le parti hanno concordato ex ante sulla possibilità di non riuscire a realizzare un assetto soddisfacente dei loro rapporti – il loro diritto –; di nuovo hanno concordato di rinunciare alla guerra e di adire un giudice privato per ciò che si denomina la risoluzione della controversia, ma in realtà è la ricerca dell’ordine non raggiunto.

7. A nostro avviso, la ragione per cui tutto ciò accade ha un fondamento antico e preciso. È la consuetudine. È la certezza che nel sistema esiste un “elemento”, una “componente”, una “forza” (nessuna definizione sembra possibile), capace di prevalere sulla effimera volontà dei singoli e quindi di creare l’ordine non raggiunto. Volenti o nolenti, le parti con le loro divergenti volontà arretrano di fronte al giudice. Non lo fanno perché c’è un art. 24 della Costituzione o perché c’è un codice di procedura civile, ma perché entrambe sanno di antico sapere che ci sono gli uffici giudiziari ed entrambe confidano nel loro buon funzionamento, anche se l’esperienza insegna che non è proprio vero. In parole più semplici e nette, le parti vivono il loro contrasto secondo una consuetudine della comunità cui appartengono e secondo tale consuetudine lo vogliono risolvere.

Per questo, ad un certo punto i giudizi si chiudono. E per questo chi, nel tentativo di far prevalere comunque il proprio interesse, pervicacemente insiste nello sfruttare ogni piega delle norme di diritto positivo per resistere e non adeguarsi alla decisione di un giudice, si vale sì di strumenti processuali esistenti, ma è in realtà un anarchico: pretende infatti di sottrarsi ad una fondamentale regola non scritta su cui si fondano la convivenza dei cittadini e l’esistenza stessa della comunità. Nel profondo, nega la propria appartenenza alla comunità, che vuole soltanto sfruttare.

Come, dunque, la concorde volontà di eseguire le obbligazioni nascenti dal contratto consente che si realizzi l’ordine da esso disegnato, così la consuetudine vuole che l’ ordine si realizzi anche nel caso di dissenso: la comune appartenenza delle parti alla comunità rende naturale, accettato, condiviso, il ricorso al giudice. L’ordine dei rapporti – il diritto – discende insomma dal contratto grazie alla volontà delle parti di realizzarlo o agli strumenti alternativi non fondati sulla forza che la consuetudine vuole si attivino.

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