Nuova normativa di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro (D. Lvo 9 aprile 2008 n.81)

Coordinate normative e principali novità
Il Decreto Legislativo n. 81 del 9 aprile 2008 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 101 del 30 aprile 2008 ed entrato in vigore il 30 luglio 2008) è stato adottato dal Governo in attuazione della Legge Delega n. 123 del 3 agosto 2007 sulla scorta della crescente emergenza determinata dall’elevato numero di incidenti sul lavoro verificatisi negli ultimi tempi.
Si pensi che le stime dell’INAIL sulle morti bianche per l’anno 2007 parlano di circa 1.260 morti sul lavoro, a fronte dei 1.341 dell’anno precedente, cui deve comunque aggiungersi il numero degli infortuni non mortali, pari a circa 913.500 casi[1].
La finalità primaria di tale provvedimento è stata quella di riordinare e coordinare tutte le disposizioni  in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro precedentemente vigenti, primo fra tutti il Decreto Legislativo  n. 626 del 1994 abrogato proprio da tale normativa.
Il nuovo decreto, che si presenta come un vero e proprio Testo Unico composto da 306 articoli e 51 allegati, ha apportato profonde innovazioni in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro.
Le novità più rilevanti, ancorché non solo squisitamente penalistiche, sono:

Qui di seguito verranno, ovviamente, esaminate solo le tematiche aventi rilievo da un punto di vista penale.

1.    Responsabilità del datore di lavoro e delega di funzioni.
Tra le varie novità introdotte dalla nuova normativa, una delle maggiormente rilevanti dal punto di vista penalistico è costituita dalla creazione di specifiche norme (id est gli artt. 16 e 17) che, recependo tutte le indicazioni fino ad oggi espresse dalla giurisprudenza, fissano i criteri di validità ed efficacia, oltre che i limiti, delle cosiddette “deleghe di funzioni”.
Come noto, nella normativa previgente tale istituto veniva, solo implicitamente, ammesso con l’indicazione, all’art. 1 comma 4 ter del D. Lgs. n. 626/1994, degli adempimenti “non delegabili”.
Con la nuova disciplina viene, invece, riconosciuta espressamente la legittimità dell’adozione, da parte del datore di lavoro, di un sistema di deleghe di funzioni in ordine agli adempimenti in materia di sicurezza sul lavoro, fatta eccezione per tutti quei casi nei quali il legislatore ha inteso espressamente escluderla (comma 1 art. 16).
Tale novum consente di ritenere invertito il rapporto “regola-eccezione”, facendo sì che la delega di funzioni non costituisca più una modalità eccezionale di adempimento degli obblighi in materia di sicurezza da parte del datore di lavoro, bensì divenga una vera e propria regola[2].
Tale assunto viene confermato anche dal fatto che il legislatore non ha convalidato l’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale il ricorso alla delega sarebbe legittimato, in via di eccezione, solo con riferimento a quelle realtà aziendali che per dimensioni e complessità dell’organizzazione non consentano al datore di lavoro di assolvere personalmente ai compiti di prevenzione[3].
Vediamo ora, nel dettaglio, quali sono i limiti e le condizioni, sanciti dall’art. 16 commi 1 e 2 del D. Lgs. n. 81/2008, affinché la delega di funzioni possa considerarsi valida per il trasferimento della posizione di garanzia.

Alla lettera a) del citato art. 16 T.U., è previsto che la delega debba risultare da “atto scritto recante data certa”. Ciò potrebbe far ritenere che la forma scritta sia contemplata ad substantiam, quale presupposto di efficacia della delega. Tale interpretazione, però,  porrebbe la norma in commento in aperto contrasto sia con quelle altre disposizioni del medesimo Testo Unico (quali ad esempio l’art. 299 “Esercizio di fatto dei poteri direttivi[4]) che fondano il sorgere della posizione di garanzia sull’esercizio in concreto dei poteri giuridici congruenti con la funzione conferita, sia con la complessiva disciplina della delega, concepita nel Testo Unico, che ancora la titolarità della funzione all’assunzione di fatto dei poteri giuridici corrispondenti, dimostrando, quindi, la volontà di far prevalere il dato sostanziale su quello meramente formale.

Deve, pertanto, ritenersi che la forma scritta sia richiesta ad probationem, conformemente a quanto, peraltro, già indicato dalla giurisprudenza formatasi sul punto durante la vigenza del precedente D. Lgs. n. 626/1994[5]. Analogo discorso deve considerarsi valido anche per l’ulteriore requisito richiesto dalla lettera e del medesimo art. 16, che richiede la forma scritta anche per l’accettazione da parte del soggetto delegato.
Ai fini dell’efficacia liberatoria della delega è, inoltre, necessario che il soggetto delegato “possegga tutti i requisiti di professionalità ed esperienza richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate” (come sancito dalla lettera b dell’art. 16 T.U.). Con tale disposizione il legislatore positivizza – recependo ancora una volta l’indicazione giurisprudenziale[6]  – il requisito dell’ “idoneità” del delegato a svolgere le funzioni attribuitegli.
La ratio della suddetta previsione normativa è quella di subordinare l’efficacia esonerante della delega alle caratteristiche professionali e di esperienza del delegato che, peraltro, non potrà ritenersi limitata ad una generica capacità organizzativa, come quella che si presume esistente in capo al datore di lavoro, bensì dovrà consistere in una vera e propria competenza specialistica, rapportata alla specifica natura delle funzioni svolte ed alla tipologia di rischio implicato dalla natura dell’attività lavorativa[7].
Ulteriore requisito richiesto dall’art. 16 comma 1 lettera c, è che la delega “attribuisca al delegato tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate”.
La delega, quindi, per poter essere considerata efficace ed idonea a mandare esente da responsabilità il delegante deve garantire la concreta attribuzione al delegato di un reale ed effettivo potere d’intervento che gli consenta di supplire efficacemente al datore di lavoro.
Ciò comporta che il delegato non solo deve essere persona tecnicamente capace e dotata delle necessarie cognizioni tecniche, ma deve anche essere in grado di garantire la sua presenza sul posto di lavoro, in quanto la mera competenza professionale costituisce all’evidenza una dote inutile ove non accompagnata dalla concreta possibilità di formare e verificare l’operato dei dipendenti.
E’ evidente, quindi, che il delegato non potrà validamente ricoprire l’incarico della posizione di garanzia spettante al datore di lavoro “contemporaneamente” in posti diversi dove vengono esercitate le attività lavorative, salvo si tratti di luoghi di lavoro contigui e di dimensioni limitate[8].
Condizione determinante ai fini dell’efficacia liberatoria della delega è, altresì, quella sancita dalla lettera d dell’art. 16 T.U., ovvero “l’autonomia di spesa” che completa il novero dei poteri che contraddistinguono l’assunzione della posizione di garanzia da parte del delegato.
Quest’ultimo, infatti, per assumere validamente in capo a sè le funzioni delegate e far fronte alle proprie incombenze – liberando conseguentemente il datore di lavoro dalle connesse responsabilità – deve essere messo in condizioni di intervenire idoneamente, con gli stessi poteri del datore di lavoro.
Ne deriva, quindi, che il datore di lavoro non andrebbe esente da responsabilità qualora non dimostrasse di avere fatto tutto quanto in suo potere per porre il delegato in grado di osservare le norme antinfortunistiche e, condizione primaria a tal fine, non può che essere la dotazione del delegato dei poteri finanziari  necessari.

La norma in esame, infine, introduce quale ultimo presupposto di efficacia delle deleghe il requisito della “pubblicità” (comma 2 dell’art. 16 T.U.), ciò al fine di garantire l’effettività del conferimento di funzioni evitando deleghe presunte o implicite.
Nel terzo ed ultimo comma dell’articolo 16 D. Lgs. n. 81 del 2008 è contenuta una disposizione che – confermando un principio già ampiamente consolidato sia in dottrina[9], sia in giurisprudenza[10]  – sancisce che “la delega di funzioni non esclude l’obbligo di vigilanza in capo al datore di lavoro in ordine al corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni trasferite. La vigilanza si esplica anche attraverso i sistemi di verifica e controllo di cui all’art. 30, comma 4, T.U.”.
La formulazione di tale norma fa ritenere che il residuo obbligo di vigilanza posto in capo al delegante abbia ad oggetto l’adeguatezza dell’organizzazione “delegata” e non, invece, gli specifici processi dai quali promana il rischio per la sicurezza dei lavoratori: il delegante, pertanto, sarà tenuto a vigilare sul corretto espletamento delle funzioni da parte del delegato, mentre sarà “liberato” dall’obbligo di impedire eventi penalmente tipici a carico dell’incolumità dei lavoratori.
Il datore di lavoro potrà, quindi, essere al più chiamato a rispondere – in ragione della sua qualità di garante per la sicurezza – per culpa in vigilando in ordine al mancato  controllo sull’attività del delegato e sul concreto esercizio della delega. Il richiamo, formulato nella norma in oggetto, ai sistemi di verifica e controllo di cui all’art. 30, comma 4, T.U., fa ritenere che l’attività di vigilanza possa considerarsi espletata attraverso l’adozione e l’efficace attuazione di un modello di organizzazione ai sensi del citato art. 30 del medesimo T.U., che sembrerebbe fungere pertanto da fattore di esonero della colpa del datore di lavoro per l’evento verificatosi[11].
Completa la disciplina delle deleghe l’art. 17 T.U. che sancisce gli obblighi che il datore di lavoro non può delegare.
Trattasi, in particolare:

Nel successivo art. 18 (“Obblighi del datore di lavoro, del dirigente”) vengono, poi, richiamati i principi già espressi dal corrispondente art. 4 del precedente D. Lgs. n. 626 /1994  anche se con taluni elementi di novità.
E’ imposta, infatti, una stretta collaborazione tra il datore di lavoro ed il “responsabile del servizio di prevenzione e protezione” (R.S.P.P.) e, ove nominato, con il “medico competente”.
Sotto il profilo dell’obbligo di controllo dei lavoratori da parte del “datore di lavoro” e dei “dirigenti”, permane solo il dovere di richiedere l’osservanza delle norme vigenti e delle disposizioni aziendali in materia di sicurezza e di igiene del lavoro, mentre il dovere di vigilanza è riferito solo all’attività nel suo complesso; diversamente, i “preposti” di cui all’art. 19 T.U. sono destinatari di uno specifico dovere di vigilanza sull’operato dei lavoratori.
Di particolare rilevanza, è l’art. 299 T.U. dedicato all’“esercizio di fatto di poteri direttivi”, il quale prevede che le posizioni di garanzia relative a “datore di lavoro”, “dirigente” e “preposto” gravino, altresì, su tutti coloro che, pur sprovvisti di regolare investitura, esercitino in concreto i poteri giuridici relativi a ciascuno dei suddetti ruoli.

Altro aspetto di sicuro rilievo direttamente connesso al profilo della responsabilità del datore di lavoro è quello dell’eventuale concorso nell’evento lesivo della condotta negligente del lavoratore.
Laddove le condotte del datore di lavoro e del lavoratore concorrano alla verificazione dell’evento si applica il principio generale di equivalenza delle cause, ex art. 41, comma 1, c.p., pertanto la responsabilità del datore di lavoro (che pur non viene esclusa dai comportamenti colposi del lavoratore e ciò in quanto il primo è titolare ex lege di una posizione di garanzia nei confronti del secondo), concorrerà con la responsabilità del lavoratore.
Il D. Lgs. n. 81 del 2008, prevedendo all’art. 20 una puntualissima elencazione degli obblighi incombenti sul lavoratore, lascia spazio ad una interpretazione di sistema maggiormente conforme ai principi ispiratori dell’ordinamento, oltre che recettiva di alcuni importanti spunti giurisprudenziali.
Ed invero, non può ritenersi che la responsabilità del datore di lavoro sia assoluta ed inderogabile, poiché, diversamente opinando, dovrebbe finire con l’ammettersi che si verta in un’ipotesi di responsabilità oggettiva.
Pertanto, l’esame del combinato disposto delle norme di cui agli artt. 20, comma 1 e 2, lettere c, d, e, g e 41, comma 2, c.p., consente di affermare, anzitutto, la sussistenza in capo al lavoratore di uno specifico obbligo di prendersi cura della propria salute e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro mediante la puntuale osservazione delle norma di comportamento enunciate al citato comma 2 dell’art. 20, nonché di giungere all’ovvia conclusione per cui la condotta di quest’ultimo, qualora violi le citate prescrizioni, non può che dar luogo ad una autonoma ipotesi di colpa specifica.
Laddove, poi, si accerti che il comportamento del lavoratore sia dotato dei caratteri dell’eccezionalità, dell’abnormità, nonché dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute dal datore[12] (concetti questi ampiamente sviluppati dalla giurisprudenza formatasi in subiecta materia), dovrà concludersi con l’esclusione della responsabilità del datore di lavoro, poiché la condotta del primo, in quanto imprevedibile ed inopinabile, non può essere ricondotta agli obblighi di garanzia imposti al datore[13].

2. La responsabilità degli enti alla luce del D. Lgs. 9 aprile 2008 n. 81.
Tra le ulteriori innovazioni apportate dal D.Lgs n. 81 del 2008 non ci si può esimere dal menzionare le modifiche all’art. 25 – septies del D. Lgs. n. 231 del 2001 sulla responsabilità amministrativa degli enti per fatti costituenti reato.
L’articolo in esame era già stato rivisitato ad opera della legge n. 123 del 2007 che, per prima, ha inserito i delitti di omicidio colposo e lesioni aggravate, ex artt. 589 e 590 co. 3 c.p., nel novero dei reati – presupposto della responsabilità delle persone giuridiche.
Segnatamente, la norma aggiornata prevedeva:

1. “In  relazione  ai  delitti  di  cui agli articoli 589 e 590, terzo comma del codice  penale,  commessi  con violazione delle norme antinfortunistiche e sulla tutela  dell’igiene  e  della salute sui lavoro, si applica una sanzione pecuniaria in misura non inferiore a mille quote.

2. Nel  caso  di  condanna  per  uno  dei  delitti  di  cui  al  comma 1, si applicano le  sanzioni  interdittive  di  cui all’articolo 9, comma 2, per una durata non inferiore a tre mesi e non superiore ad un anno”.

Il D. Lgs. n. 81 del 2008, rimanendo fedele allo spirito della legge delega e pur non apportando peculiari innovazioni al testo sopra riportato, ha introdotto delle migliorie, sotto il profilo sia sostanziale sia letterale, che hanno consentito di evitare le contraddittorietà in cui si poteva incorrere in ragione della formulazione originaria.
In particolare, sotto il profilo della sanzione prevista al comma 1 dell’art. 25 – septies, vi era una evidente incongruità fra la lettera di tale disposizione (“si applica una sanzione pecuniaria non inferiore a mille quote”) e la previsione di cui all’art. 10 dell D. Lgs. n. 231 del 2001 (id est la norma generale che identifica la forbice entro la quale si riconosce la sanzione pecuniaria destinata agli enti) che individua proprio in mille il tetto massimo di quote che quest’ultima può raggiungere.
E’ evidente come il minimo della sanzione prevista per la responsabilità dell’ente in relazione ai reati di cui agli artt. 589 e 590, comma 3, c.p., venisse a coincidere con il tetto massimo fissato per la generalità delle sanzioni pecuniarie astrattamente irrogabili ai sensi del Decreto legislativo n. 231/2001.
La nuova formulazione dell’art. 25 – septies, ha introdotto, anzitutto, una diversificazione del regime sanzionatorio in virtù della diversa gravità dei delitti di omicidio e di lesioni ed ha, poi, con la nuova formulazione del comma 1, consentito di superare l’incongruenza sopra evidenziata, prevedendo (per la sola fattispecie di omicidio) una sanzione pecuniaria “in misura pari a 1.000 quote”.
Al comma secondo, poi, è stata effettivamente introdotta una previsione in termini di pena che consente una ulteriore graduazione della sanzione capace di far fronte alla varietà delle violazioni colpose che possono determinare l’evento di cui all’art. 589 c.p.
Sotto altro profilo, il nuovo art. 25 – septies, al primo comma, ha ulteriormente specificato il contenuto delle norme la cui violazione, seguita dall’evento lesivo tipizzato, risulta potenzialmente attributiva della responsabilità in capo alle persone giuridiche, mediante esplicito richiamo all’art. 55, comma 2, dello stesso decreto 231.
Quest’ultima norma, in realtà, è impropriamente indicata poiché la stessa non ha contenuto precettivo, in quanto contempla esclusivamente circostanze aggravanti delle contravvenzioni previste al comma 1 del medesimo articolo (omessa valutazione dei rischi ed omessa o incompleta valutazione del documento, nonché omessa nomina del responsabile del servizio di prevenzione e protezione) e, tuttavia, l’indicazione delle specifiche violazioni colpose più duramente sanzionate, cui pure indirettamente si giunge attraverso il richiamo al citato comma 2, ha carattere innovativo oltre che, moderatamente, garantistico.
Va, in ogni caso, sottolineato che la violazione della norma di prevenzione rileva solo nella misura in cui la stessa assuma rilievo nella causazione dell’evento proprio del reato di omicidio colposo (o di lesioni), che rimane il vero reato – presupposto da cui può conseguire la responsabilità dell’ente.

3. Legittimazione processuale: le nuove parti civili nel processo penale.
L’art. 61 del T.U.  prevede che in caso di esercizio dell’azione penale per i delitti di “omicidio colposo” o di “lesioni personali colpose”, se il fatto è commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all’igiene sul lavoro o che abbia determinato una malattia professionale, a seguito di notizia del Pubblico Ministero, l’Inail e l’Ipsema possono decidere di convenire in giudizio e costituirsi parte civile.
Si noti che, mentre analoga previsione era già contemplata dall’ordinamento in relazione all’Inail, la partecipazione al processo dell’Ipsema viene introdotta per la prima volta nel decreto in esame.
Ai predetti enti, seppur impropriamente assimilati alla figura processuale della persona offesa dalla rubrica della norma, viene concessa la facoltà di instaurare l’azione civile nel processo penale attraverso la costituzione di parte civile, dietro dimostrazione della sussistenza di un danno risarcibile gravante sugli stessi e, quindi, della propria legitimatio ad causam.
Lo stesso articolo, al secondo comma riconosce ai sindacati ed ad alcune associazioni in seguito meglio specificate la legittimazione a partecipare al processo penale con i diritti e le facoltà della persona offesa.
Segnatamente, il citato comma dispone che le organizzazioni sindacali e le associazioni dei familiari delle vittime di infortuni sul lavoro possono esercitare i diritti e le facoltà della persona offesa, ai sensi ed alle condizioni degli artt. 91 e 92 c.p.p., nei processi per reati commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all’igiene sul lavoro o che abbia determinato una malattia professionale.
Anche a tali associazioni, viene, quindi, concessa la facoltà di intervenire nel processo penale in qualità di enti rappresentativi di interessi lesi dal reato, sebbene in una veste parzialmente diversa e, probabilmente, più appropriata rispetto a quella riconosciuta all’Inail ed all’Ipsema.
In conclusione, è possibile esprimere un giudizio complessivamente positivo sulla normativa in esame, per un duplice ordine di motivi.
Anzitutto, alcune delle nuove disposizioni di legge hanno il merito di aver normativizzato gli insegnamenti giurisprudenziali formatisi in passato come, ad esempio, in tema di concorso di responsabilità fra il datore di lavoro ed il lavoratore, al quale ultimo è oggi attribuito uno specifico e nutrito novero di obblighi la cui violazione appare in grado di determinare un’autonoma fattispecie di colpa specifica.
Sotto altro profilo, il decreto in oggetto conferisce maggiore effettività e concretezza ad  alcuni istituti; si pensi  alle disposizioni in tema di delega di funzioni e, in particolare, alla previsione sub art. 16 co. 1 lett. C) che vieta, in sostanza, che il delegato possa validamente ricoprire l’incarico della posizione di garanzia spettante al datore di lavoro “contemporaneamente” in posti diversi dove vengono esercitate le attività lavorative.

Note

1. Informazioni tratte dal sito www.inail.it

2. Nicola Pisani “Profili penalistici del testo unico sulla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro – Decreto Legislativo 9 aprile 2008, n. 81” in Diritto Penale e Processo n. 7/2008 p. 827 e ss.

3. (cfr: Cass. Pen. sez. IV, 6 febbraio 2007 n. 12794; in senso conforme anche: Cass. Pen. Sez. III, 22 febbraio 2006 “secondo cui all’interno di una struttura semplice non sussiste la necessità di decentrare, in funzione partecipativa di professionalità ed esperienze differenziate, l’esercizio di poteri di direzione e di controllo dell’attività produttiva”)

4. l’art. 299 D.Lgs. n. 81/2008 così dispone: “Le posizioni di garanzia relative ai soggetti di cui all’art. 2 comma 1, lettere b, d ed e, gravano altresì su colui il quale, pur sprovvisto di regolare investitura, eserciti in concreto i poteri giuridici riferiti a ciascuno dei soggetti ivi definiti”.

5. Si confronti in merito: Cass. Pen. 27.01.1994, Cassarà, in Cass. Pen. 1996, 1272 con nota di M. Bellagamba.

6. per tutte si confronti: Cass. Pen. 6 luglio 1995 n. 7569.

7. Nicola Pisani “Profili penalistici del testo unico sulla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro – Decreto Legislativo 9 aprile 2008, n. 81” in Diritto Penale e Processo n. 7/2008 p. 827 e ss.

8. Giuseppe Amato, “I profili di responsabilità – Limiti della delega” in Guida al Diritto n. 20 pagg. VII e ss.

9. C. Pedrazzi, “Gestione dell’impresa e responsabilità penale”, in Riv. Soc., 1962, 293.

10. Da ultimo: Cass. Pen. sez. IV, 6 luglio 2007, Camillo.

11. Nicola Pisani “Profili penalistici del testo unico sulla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro – Decreto Legislativo 9 aprile 2008, n. 81” in Diritto Penale e Processo n. 7/2008 p. 827 e ss.

12. Tra le altre, Sez. IV, 4/7/03, Valduga, nonché di recente, Cass., Sez. IV, 12.02.08, Trevisonno.

13. Per casi esemplificativi, si vedano Cass. Sez. IV, 5/7/04, Grandi; Cass., stessa sezione, 27/11/02